lunedì 11 novembre 2024


Un libro che parli di alimenti e che contenga ricette è da molti considerato un libro leggero, un libro che tratta di argomenti di facile comprensione o che tratta di qualcosa di piacevole come può esserlo un convivio familiare per qualche lieta ricorrenza. C’è qualcosa di vero certamente, perché le ricette rimandano al piacere della tavola, della buona tavola per essere precisi, e si intrecciano spesso di memorie familiari che sollecitano ricordi di un tempo passato, quei bei tempi che ci allietavano solitamente nel tempo che fu, che per una sorta di inganno della mente ci appare sempre migliore di quello che è. Nei risvolti del cibo, dalla sua preparazione alla consumazione, si annidano memorie, come quelle del grembiule della nonna, delle prime cottarelle, del primo amore, di una serata a lume di candela, di una ricca colazione riparatrice di un’altrettanta ricca nottata, ecc. in quei risvolti si ritrovano sapori che riportano ad una tavola che può diventare mitica, ad una meta di un viaggio che rimane stampato nell’anima, ai sapori di altri mondi, di altre culture, alla scoperta del contatto con l’altro diverso da noi.


Ma, ma…un libro sugli alimenti e sulle loro combinazioni che si consolidano in un piatto che si replica nelle ricette, non è soltanto un libro di cucina: è uno spaccato sulla storia dell’umanità. L’alimentazione è un fondamento dell’esistenza, si può vivere o in alcuni casi sopravvivere soltanto mangiando.

Il percorso condotto dall’uomo per giungere fino a noi è connotato dal rapporto con l’alimentazione: oggi può sfuggirci la complessità di questo lungo complesso viaggio che ha condotto l’umanità. Soffermiamoci a considerare che il primo brevetto per una macchina refrigerante risale al 1851, ma per giungere ad una pratica applicazione si deve aspettare il 1876 quando entrò in funzione una macchina per tenere prodotti alimentari al fresco su una nave; il primo frigorifero domestico appare nel 1913, poco più di cento anni fa; e poco meno di duecento anni ci separano dai primi tentativi di trovare una sostituzione alla conservazione sotto ghiaccio, che era l’unica non facile pratica di conservazione, per un tempo comunque di qualche giorno. Se prendiamo in esame soltanto la storia dell’homo sapiens, quella che riguarda gli ultimi duecentomila anni della storia umana, ci rendiamo conto che stiamo parlando di un millesimo del tempo in cui si è pensato e realizzato un sistema di refrigerazione, che ha, con grande lentezza, modificato la vita degli umani, che hanno potuto  cominciare ad affrancarsi, almeno in parte, dal problema della conservazione, ma soprattutto hanno acquisito la possibilità di trasferire alimenti da un luogo all’altro. Se prendiamo invece in esame la congelazione bisogna aspettare gli esperimenti fra le due guerre del secolo scorso, che riescono a consolidarsi in una macchina messa sul mercato con il nome di freezer, nel 1943; la sua diffusione domestica negli Stai Uniti risale alla seconda metà degli anni ’50; in questo caso il rapporto con il solo periodo del sapiens è praticamente un tremillesimo del tempo.


Noi, oggi, viviamo dunque una esperienza di rapporto con il cibo che è assolutamente una novità, già solo per queste due esperienze, alle quali se ne potrebbero aggiungere molte altre come la surgelazione degli alimenti alla fonte, di cui i primi esperimenti si datano meno di cento anni fa, e soltanto alla fine della seconda guerra diedero un qualche risultato apprezzabile, prima di diventare pratica comune. Il traffico sui grandi vettori marittimi a partire dall’Ottocento favorì lo spostamento di alimenti, ma la disponibilità che potremmo definire totale nel trasferire alimenti da luoghi fra loro molto distanti avviene con l’imporsi del traffico aereo a far data dagli anni Ottanta, meno di cinquanta anni fa.



Noi apparteniamo ad un frammento di storia umana che recandosi al mercato può trovare quanto si coltiva e si produce praticamente in ogni parte di mondo, e, di conseguenza, può approntare cibi seguendo ricette di tutto il mondo. Questo risultato raggiunto ci sta facendo però perdere di vista il rapporto con il territorio, ovvero il rapporto con ciò che un territorio è in grado di produrre, e questo dipende non soltanto dal clima, ma proprio dalla complessità che è data sia dalla terra, sia dall’abilità dell’uomo nel coltivarla, che, a sua volta, dipende dal grado di acquisizione della conoscenza per sfruttarla al meglio e dal livello di acquisizione tecnico strumentale per procedere a questo sfruttamento; inoltre ci fa perdere la relazione con la stagionalità, che invece è strettamente correlata alla capacità del corpo di assimilare nel modo corretto gli ingredienti dei singoli alimenti.

Un libro che parli di alimenti con un corredo di ricette diviene allora un libro che indaga sulla storia dell’umanità, che apre orizzonti su un gruppo sociale, su una cultura, ci indica cosa nel tempo e nello spazio è stato buono da mangiare, in base alla risorse e al gusto, perché quando si entra nel campo dell’alimentazione entra in gioco anche questo particolare che non è assolutamente trascurabile; per fare chiarezza subito con un esempio, si sa che in periodi di grande difficoltà, come durante la seconda guerra mondiale, in alcuni luoghi si consumarono i gatti, ma non i cani, che peraltro sono stati per molto tempo considerati una prelibatezza presso alcuni popoli dell’estremo oriente. Anche un libro che contenga solo ricette, un ricettario, diviene una lente di ingrandimento per comprendere le abitudini di un popolo in un certo tempo, ne abbiamo un esempio con il ricettario dell’Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene; questo è il ricettario più famoso e letto della cucina italiana, a cui anche i grandi chef contemporanei guardano ancora per trarre suggerimenti e ispirazione; possiamo ridurlo ad un semplice, seppur ricco ricettario? Vi si trovano 766 ricette dagli antipasti ai dolci e ai liquori! Soltanto la ricchezza linguistica con cui sono descritte le ricette e gli strumenti necessari alla preparazione degli ingredienti in una prosa facilmente comprensibile, meriterebbe un discorso a parte; basti pensare che nella seconda metà del secolo scorso si fece strada l’idea che l’unificazione linguistica dell’Italia sia passata proprio da questo libro; se ne fece portavoce Paolo Poli, che definì Artusi…l’uomo che ha trasformato l’arte culinaria in un modello culturale che ogni giorni viene consumato sulla tavola degli italiani. “Non vergogniamoci dunque di mangiare il meglio che si può, ridiamo il suo posto anche alla gastronomia. Infine, anche il tiranno cervello ci guadagnerà, e questa società malata di nervi, finirà per capire che, anche in arte, una discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice”. Questa sollecitazione ha spinto qualcuno ad andare a vedere quante copie avesse venduto Artusi dalla prima edizione del 1891 all’ultima del 1911, alla quale si rifanno tutte le successive ristampe; ebbene, in vent’anni aveva venduto 283.000 copie, e sempre quel qualcuno andò a vedere quante ne avesse venduto Manzoni con i suoi Promessi Sposi; ebbene, dall’edizione del 1840 alla fine del secolo, si contavano 200.000 copie. Questa valutazione ha indotto l’Accademia della Crusca, per bocca di Giovanna Frosini, nel 2009, a dichiarare…è al livello del lessico e della sintassi che meglio si può cogliere la ricchezza, la vivacità, la naturalezza del linguaggio di Artusi: pronto a recepire il patrimonio vivo della sua città di elezione con orecchio attento e partecipe, ma anche a conoscere la profondità della lingua grazie allo studio della tradizione letteraria. Nel 2010, Alberto Capatti, storico dell’alimentazione, primo rettore dell’Università di scienze gastronomiche, ha definito il testo dell’Artusi…un’opera di impegno civile: istruire cuoche e cuochi nella lingua italiana, far loro conoscere il patrimonio di molte regioni italiane, dalla Sicilia al Piemonte, stimolare una attenzione patriottica al cibo contro l’imperante francofilia. Le ricette provengono da tutta la penisola e diventano così un documento sull’Italia, da poco unificata, su usi e costumi, disponibilità e tradizioni locali; una curiosità, che però può aiutare a comprendere il gusto: il pepe è citato in 387 ricette, ma non vi è traccia alcuna del peperoncino, considerato spezia dei poveri, così come non ve ne era traccia nel famoso testo di Brillat Savarin, La Fisiologia del gusto, al quale si deve l’espressione dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Il peperoncino a sua volta, insieme agli altri prodotti che giunsero in Europa a seguito della scoperta dell’America (patata, pomodoro, mais, peperone, cacao, tacchino) ci offre uno spaccato interessante su come sia mutata l’alimentazione, nel corso di circa due secoli, fino a produrre una condizione economico-sociale, di fatto affrancata dalle carestie, il che permise all’ Europa di vivere a partire dal Settecento quella trasformazione agraria e industriale che ha dato impulso alla supremazia dei paesi dell’Europa stessa in tutto il mondo, imponendo un modello di vita dal quale ancora dipendiamo, nel bene e nel male.


Insomma, un libro che tratti di erbe e spezie, con un apparato di ricette, non necessariamente è solo funzionale all’uso in cucina.


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