giovedì 7 dicembre 2023

Perché le persone non guariscono?


Perché le persone guariscono talvolta con estrema difficoltà da alcune loro forme di malattia, o persino non guariscono affatto?
La domanda me la pongo spesso, soprattutto quando sembra che nessuna forma di terapia possa apportare non dico la guarigione, ma anche solamente un sollievo, un miglioramento ad una condizione di sofferenza fisica o mentale; può sembrare in molti casi che ci sia una condizione di recupero, qualche volta sembra di aver raggiunto un equilibrio, ma, in breve, si ha una ricaduta; il disagio riprende con l’aggravante della percezione che non si riuscirà a risolvere quella che è considerata una condizione patologica, che può affliggere tanto il corpo quanto la mente. 
In molti casi le persone maturano una sfiducia in un medico o in un terapeuta, e avviano un itinerario di ricerca da una figura professionale all’altra, ondeggiando, in tante occasioni, dalla medicina cosiddetta ufficiale a esperienze presso terapeuti olistici, incontrando, talvolta, in questo caso, persone approssimativamente preparate ad affrontare situazioni di disagio complesse e radicate. Fra i tanti che arrivano nel mio studio, molti hanno alle spalle questo itinerario e giungono nella viva speranza che finalmente si possa trovare una soluzione ai loro malesseri con l’Ayurveda; soluzione che, purtroppo non è mai così vicina come si spera, e che può essere fonte di una ennesima delusione, che alla fine genera un sentimento di profonda solitudine, con la percezione di essere abbandonati a sé stessi e, infine, di essere irrecuperabili.
E, allora, cosa impedisce di risolvere un disagio?
La realtà è che, spesso, il percorso di guarigione è spiacevole e persino, in alcune situazioni, potrebbe essere definito sgradevole. Ci sono oggettivi ostacoli alla guarigione, il primo è costituto dall’accettazione che se si è giunti ad una condizione patologica è perché qualcosa nel nostro stile di vita, nel nostro modo di gestire le emozioni, non è stato adeguato a mantenere un equilibrio psicofisico; accettare che qualcosa è andato storto significa mettere in discussione il passato. Abbandonare il passato, anche solo in parte, vuol dire smettere di vivere nel passato, di continuare a radicarsi in situazioni che pure hanno avuto l’effetto di produrre molta sofferenza, e, soprattutto, significa che si deve operare un profondo cambiamento nella percezione di sé stessi, ovvero smettere di considerarsi una vittima di eventi o persone che avrebbero agito su di noi, il che, a sua volta, significa di dover accettare che la più parte delle esperienze che ci hanno prodotto sofferenze dipendevano solo in parte da qualcosa di esterno, che la partecipazione individuale, conscia o inconscia, c’è stata, che ognuno è stato corresponsabile delle situazioni che ha vissuto, per timore dell’abbandono, per timore di affrontare la solitudine, per timore di non compiacere. Scivolare nel ruolo di vittima ha anche la funzione di ottenere attenzione, suscitando preoccupazione nelle persone che sono vicine e ha in ultima analisi una funzione ricattatoria che mette al centro dell’attenzione delle persone care, genitori, partner, amici, conoscenti la propria condizione: la vittima genera compassione e comprensione. In questa condizione la mente spreca un incredibile patrimonio energetico per ruotare intorno alla condizione di disagio e genera una catena di rapporti interpersonali drogati, viziati, insinceri.

Per guarire bisogna prima di tutto uscire da questa condizione, smettere di osservare il passato come fonte di disagio del nostro presente; per guarire bisogna ricollocarsi nel presente, ricollocarsi significa collocarsi non come conseguenza logica e naturale del passato, ma attraverso una nuova posizione di osservatore della propria condizione, accettando di essere pronti ad affrontare una nuova dimensione del vivere, operando tagli, talvolta chirurgici, vere e proprie amputazioni che selezionino il passato, scandagliando quello che può rimanere, e quello che deve essere lasciato andare nell’oblio. Del passato resta il ricordo delle persone alle quali abbiamo voluto bene, dalle quali abbiamo ricevuto bene, il resto deve essere scartato; il male che si è introiettato attraverso delusioni, errori, tradimenti, vessazioni, deve essere guardato con distacco, come somma di eventi che hanno contribuito a formarci, non a deformarci. Solo questo atteggiamento può portare a considerare che i nuclei che hanno agito per costruire la nostra sofferenza, il nostro dolore emotivo e fisico, sono state soltanto occasioni, sfide, nelle quali ci si è trovati, ma dalle quali si può trarre un insegnamento e dalle quali muoversi per operare una trasformazione. Rimettere in discussioni i nodi della nostra sofferenza, significa andare a cercare che cosa veramente avremmo potuto fare e cosa ancora potremmo fare per diventare altro da quello che siamo, una vittima del proprio pensiero e del proprio fisico dolente. Per questo salto nella considerazione di noi stessi si deve superare la paura del cambiamento, che può, e si deve mettere nel conto, portare a cambiamenti radicali, nella vita di relazione affettiva o nella vita pratica, con tutti quei risvolti che costituiscono le coordinate esistenziali. 

Noi siamo quello che siamo stati, questo vuol dire che si sono costruiti nel tempo i meccanismi del nostro presente, la vita di relazione, la scelta del partner, le scelte scolastiche che possono aver determinato le scelte lavorative. Quando ci si osserva da questa prospettiva può sembrare che ormai si è quel che nel tempo siamo stati e che ormai si è in un groviglio di situazioni che appaiono immutabili, ci si può percepire senza via d’uscita o si può cadere nella visione che ormai quel che è stato, è stato, oppure ancora si possono guardare con amarezza tutte le occasioni perdute, valutare la somma di fallimenti accumulati, considerare limiti e impedimenti che hanno condizionato il vivere, percepirsi vittime di un progressivo percorso che ha castrato ogni possibilità di riscatto, ormai tutto è perduto. Eppure, nessuna di queste reazioni emotive è vera. Pensiamo a come la vita possa ribaltarsi per un evento naturale, un terremoto piuttosto che un’alluvione, che portano via la casa o il luogo di lavoro, o al cambiamento radicale che può introdurre un evento nella vita lavorativa, un fallimento, lo spostamento di un’azienda, l’assorbimento da parte di altre realtà lavorative, e gli esempi potrebbero moltiplicarsi; in questi casi si affronta la situazione, si cercano le soluzioni, ci si attiva; si tratta, con evidenza, del trovarsi a operare un cambiamento dettato da qualcosa che avviene al di fuori di noi stessi, ma il cambiamento poi si attiva. E, allora, perché il cambiamento non si può attivare per qualcosa che avviene dentro di noi? Perché dipende da noi, da una nostra scelta che impone di dare una svolta, di abbandonare parte del nostro securizzante tran tran esistenziale, dove non si sta bene, ma almeno si sa come è. Modificare le coordinate del nostro vivere quotidiano rappresenta spesso qualcosa di insormontabile, si riesce con più facilità, malgrado tensioni in alcuni casi di portata notevole, a cambiare il partner, perché, in realtà, c’è stata una sorta di consenso popolare che ha accettato che ci si poteva separare, si poteva divorziare, vuoi anche per l’evoluzione che ha segnato il percorso del ruolo della donna, vuoi perché ci sono stati modelli esemplari a partire dalla seconda metà de secolo scorso, che hanno mostrato che si poteva fare; le copertine dei rotocalchi femminili del dopoguerra mettevano in copertina le variabili matrimoniali delle grandi dive sdoganando la imperitura durata del matrimonio; la progressiva decadenza del valore sacrale del matrimonio ha fatto il resto. Più difficile cambiare lavoro, soprattutto in una società dove l’idea rassicurante del posto fisso è stata inculcata fin da bambini, orientando scelte scolastiche finalizzate a quel tipo di scelta lavorativa; indubbiamente i limiti proposti dalle incertezze economiche possono operare un freno assai importante. Ancor più difficile entrare a sbrogliare la matassa delle relazioni interpersonali, a partire da quelle familiari, non solo quelle tuttora in atto, ma anche quelle ormai definitivamente appartenenti al passato, in quanto alcuni attori sono nel frattempo passati a miglior vita. In ogni modo, le resistenze al cambiamento sono sempre tante, nei matrimoni con prole, nel mondo del lavoro, nel mondo delle relazioni, le resistenze al cambiamento restano talvolta come macigni insormontabili; in molti casi, quando i cambiamenti sono complessi o impossibili, bisogna mettere in atto un cambiamento emotivo. Trovarsi in una situazione non immediatamente modificabile deve condurre ad una accettazione della situazione in cui ci si trova, ma questo non vuol dire non programmare il cambiamento: accettare una condizione può consentire di investire le proprie forze per organizzare in modo progressivo le possibili soluzioni, che richiederanno un tempo più o meno lungo per essere attuate, ma liberano la mente dal rimestare nel passato; organizzarsi per riaffrontare il futuro, è un modo di uscire dai percorsi nel passato, simili spesso alle continue corse del criceto in gabbia. 
Il percorso di guarigione è spiacevole e persino, in alcune situazioni, potrebbe essere definito sgradevole; infatti, non è mai semplice districarsi nella ragnatela delle infinte trame che hanno costituito il passato, e che possono apparire come legami inestricabili. Non si può non considerare che con lo stesso evento della nascita ci si ritrova in una dimensione che, almeno apparentemente, non è stata scelta, e che questo evento fornisce coordinate spazio-temporali di non trascurabile importanza: quell’evento ci pone all’interno di una prima rete di relazioni, nella quale si procede per la formazione di base, che darà consistenza all’esistere dell’individuo; ci si forma, prima di avere una qualsiasi capacità di autonoma indipendenza intellettuale, con un percorso che dura più di un decennio con persone che scelgono per la nostra crescita, altre persone, a partire dai genitori, che scelgono dove come e quando far compiere le prime esperienze di vita. Da quella prima rete di relazioni, nascono spesso la più parte di problemi emotivi, che inducono in molte occasioni a compiere scelte sbagliate nel resto della vita, vuoi di formazione scolastica per affrontare la vita lavorativa, vuoi di scelte nelle relazioni interpersonali e, in primis di relazione affettiva e sentimentale. Molte di queste scelte, che si rivelano insoddisfacenti o comunque negative, aprono ad affrontare uno stile di vita improprio, alla ricerca di compensazioni o di altre soddisfazioni, maturando un percorso di rabbia o di tristezza o di ricerca di potere, che, infine, conduce alla malattia, che potrebbe anche non essere vissuta come tale e che, tuttavia, potrebbe generare sofferenza agli altri, come nel conclamato caso di giovani maschi che esplodono con ferocia quando non accettano di essere lasciati dalla persona che pensano di amare.
Cambiare stile di vita significa uscire da una strada vecchia per affrontarne una nuova, e per questa operazione non sono sufficienti farmaci o rimedi di differente origine, perché quando questi agiscono operano soltanto sulla parte fisica del corpo, non aiutano a rimettere in discussione la componente emozionale. Occorre avviare un percorso di cura dello spirito, riparare la coscienza, il luogo ritenuto dall’antica medicina ayurvedica depositario della capacità immunitaria. Di questo processo di riabilitazione della coscienza e dello Spirito hanno parlato, ognuno con uno preciso punto prospettico, tanti uomini dell’Occidente, e molto recentemente anche un artista, Franco Battiato, e sono stati avviati percorsi anche in alcuni Ospedali all’estero e in Italia. Ognuno ha proposto una modalità differente, ma il comune denominatore è rimettere in moto il contatto con l’Anima, operando un distacco dal passato e dalle difficoltà vissute e che ancora possono interferire con la qualità della vita, al fine di ritrovare sé stessi avviando un nuovo stile di vita, che passa certamente dal corpo, ma è governato dalla coscienza, che si prende cura del corpo e può risanarlo. C’è un momento in cui si può attuare la svolta, ed è quello in cui si comprende che si sta chiedendo agli altri di darci qualcosa, amore affetto vicinanza soldi, che ci siamo messi al centro di un’attenzione che abbiamo esigito, come se fossimo costantemente in credito nei confronti degli altri, i quali possono essere responsabili di questo atteggiamento, come accade nei casi in cui genitori troppo premurosi diano ai loro figli tutto quello che loro richiedono, e, anzi talvolta, ancora prima che abbiano chiesto; capovolgere la prospettiva e mettere sé stessi al centro dell’attenzione, liberarsi dalla dipendenza di chiedere agli altri o di ritenerli responsabili di quel che abbiamo vissuto o abbiamo potuto o dovuto vivere. Le antiche filosofie orientali ritenevano che la nascita fosse conseguenza di una scelta, finalizzata a compiere un’esperienza che doveva insegnare ad evolvere; questa concezione portava ad accettare di essersi trovati in quel particolare contesto, dove anche le esperienze negative avevano la funzione di rendere l’individuo consapevole delle opportunità e dei limiti che circoscrivevano la sua esistenza. Si può anche non credere a questa possibilità, ma dovremmo comunque sempre non perdere di vista che essere nati in un preciso contesto familiare, socioeconomico, culturale, è insieme un’opportunità e un limite. Solo quando si accetta che quello che è stato, può essere accantonato, e si riesce a trovare la forza di affrontare un cammino nuovo, contando su sé stessi e sulla relazione con gli altri non più di dipendenza, ma semai al contrario dispensatrice della esperienza acquisita, anche di profonda sofferenza, si può cominciare il percorso di guarigione.

Nessun commento:

Posta un commento

Un libro che parli di alimenti e che contenga ricette è da molti considerato un libro  leggero,  un libro che tratta di argomenti di facile ...