Nel 1995, mi fu chiesto di presentare, il libro di Mario Zunino, Come foglie portate dal vento, edito da pochi giorni da Marietti.
Il libro spalancava una pagina sui tormenti del periodo fascista prebellico, e durante la guerra, di una famiglia della borghesia genovese. Questo romanzo mi è tornato in mente più volte in questo periodo, e lo ripropongo alla lettura, perché è uno scenario pedagogico su una pagina di Storia, che non può essere dimenticata, insieme alla mia presentazione di allora.
MARIO ZUNINO, Come foglie portate dal vento, Marietti.
Personaggi:
Anna Benini Marradi, protagonista
Maria Marradi, sua suocera
Pietro Marradi, suo suocero
Patrizia Marradi, sua figlia
Giacomo Marradi, suo marito
Elisabetta e Nicola Benini, i genitori
Giuliana e Carlo Benini, i fratelli
Sergio Ferrari, il fidanzato di Giuliana
Fanny Maltinti, l’amante di Giacomo
Aldo Parri, l’innamorato di Anna
Paolo Antis, la spia dell’OVRA
Il romanzo prende il titolo da una frase che la protagonista Anna Benini Marradi dice all’uomo che ama, pochi giorni dopo l’8 settembre: “Con questa guerra che non finisce mai, siamo tutti come foglie portate dal vento. Nessuno può fare niente di propria iniziativa; ma solo subire”. Anna Benini è la protagonista di questo suggestivo romanzo: la incontriamo nel sole di Santa Margherita all’inizio del romanzo - primavera del 1940 - e ci accompagna per tutta la vicenda, protagonista assoluta - fino all’ultima pagina, nel maggio del 1945, pochi giorni dopo la liberazione di Genova.
Il romanzo copre infatti tutto l’arco della II Guerra mondiale, da qualche settimana prima della dichiarazione, quando però ormai l’entrata in guerra era nell’aria, seguendone poi tutte le vicende, nella città, i bombardamenti e la fame e sullo sfondo la guerra in Africa, in Grecia, in Albania, in Russia, passando dal momento chiave della caduta del fascismo e della lotta di liberazione, fino alle settimane successive alla conclusione della guerra.
E la guerra è la coprotagonista del romanzo, insieme ad Anna.
Essa infatti viene fuori da ogni pagina, con tutto il suo repertorio, il confino, la persecuzione politica, le case devastate, le code davanti ai negozi, i morti, gli uomini lontani a combattere; tutto totalmente vero, perché è la storia con i suoi documenti che ce lo dice, eppure sembra eccessivo in questa totalità, e ci appare infatti come incredibile.
È questo il primo elemento sul quale voglio soffermarmi: siamo abituati a leggere libri su qualche momento della guerra, su qualche periodo, sulla Resistenza, sulla deportazione; ma raramente abbiamo un romanzo che ci racconta così attentamente il vivere quotidiano della guerra, nel suo lento svolgersi, un giorno dopo l’altro con tutto il suo carico di orrori: la paura dei bombardamenti, la fame crescente, la deportazione degli amici, i morti sotto le macerie, ma soprattutto con il vissuto psicologico dei personaggi di fronte a quegli avvenimenti e in modo particolare di fronte al regime, che fino all’ultimo compie la sua opera di devastazione sociale, persino all’interno dei nuclei familiari, scatenando un aberrante credo di valori negativi, che sono altrettanto dirompenti delle bombe.
Può venire in mente la Storia della Morante, ma là l’indagine guardava ad un mondo marginale e per questo stesso motivo poteva sembrare che la durezza della guerra in fondo si fosse fatta sentire acutamente per quelli che già prima della guerra vivevano in condizioni precarie. Allo stesso modo si è tentati di pensare che la tragedia degli ebrei è in ultima analisi un aspetto per quanto terribile di una vicenda altrettanto marginale, ci dispiace, ne sentiamo interamente la tragedia, ma nello stesso tempo è qualcosa che riguarda solo una parte della società.
Nel romanzo di Zunino la guerra invece è vissuta attraverso le esperienze di un gruppo di persone che appartengono per la più parte alla buona borghesia cittadina.
Sono gente come noi, medici, professionisti, significativi per censo e per cultura, e allora li sentiamo profondamente vicini.
Le loro esperienze in qualche modo sono finalmente le esperienze della gente comune italiana, in buona misura proprio di quella buona borghesia cittadina che era stata così tenera con il fascismo o che addirittura l’aveva individuato come la sua ideologia vincente, quella che l’avrebbe portata ad avere un sicuro posto nella società.
E proprio in questa scelta di personaggi non marginali, non diversi, il carico della guerra appare troppo: sembra impossibile che un figlio, il marito di Anna, Giacomo Marradi, si dedichi interamente a sostenere il fascismo mentre suo padre Pietro vi si ponga sempre più decisamente contro; sembra impossibile che la nostra protagonista poco meno che ventenne, ignorante di politica, senza grossi ideali se non quello di fare bene la moglie e la madre, si trovi in mezzo a quella tensione, cerchi di fare qualcosa e allora finisca per confrontarsi duramente con la vacuità del fascismo, con i boriosi personaggi che lo incarnano, ognuno ad esso legato per diversi motivi, ma tutti ugualmente sordidi: l’arrivismo, i soldi, il potere, e ne senta orrore; e ci sembra impossibile che debba veder partire prima l’uomo di cui si è castamente innamorata per il fronte greco, poi il fratello per l’Africa, poi ancora il fidanzato generoso della sorella per la Russia, senza avere una risposta chiara alla domanda del perché debbano farlo; sembra impossibile che i suoi genitori muoiano entrambi sotto un terribile bombardamento della città, che suo suocero debba finire esiliato in un paese del sud senza poter dare per due anni nessuna notizia, che sua suocera muoia di crepacuore, che ella debba nascondersi ai bombardamenti terribili con la sua figlioletta, che riesca per puro caso a sfuggire alla tragedia della galleria delle Grazie, che debba fare estenuanti code per qualche uovo, qualche patata, un po’ di pasta, un pane sempre più nero.
Una sventura quotidiana, ogni giorno un po’ più grave del giorno prima, anche per il progressivo scoramento che affligge tutti quanti e per l’incrudelirsi del regime fascista prima e della dominazione tedesca poi l’accompagna fino alla liberazione.
A rendere credibile il tutto però ci pensa l’autore che ha una mano felicissima nel raccontarci il vissuto intimamente psicologico di queste vicende nei diversi personaggi: lo è in questo tratteggiarne le emozioni, tutti sono veri, non abbiamo bisogno di andare a controllare le infinite testimonianze che la storia ha raccolto per cogliere intimamente che quello che qui si racconta è vero: perché è veramente vissuto, perché i personaggi di fronte a cose che possono apparire incredibili, hanno reazioni profondamente umane, nel bene e nel male, perché tutti hanno qualcosa che ci assomiglia, anche nei nostri più nascosti aspetti che non vorremmo neppure avere. E se per caso ci sfiora l’idea che quello che la nostra protagonista si trova a dover affrontare non fosse vero, lo sentiamo profondamente verosimile, perché possibile.
Ma resta che tutto quello che qui si racconta al di là della fictioletteraria che ricostruisce personaggi e intreccio, è frutto di una minuziosa ricostruzione storica da parte dell’autore: la storia non lascia spazio all’immaginazione se non per la riproposta in chiave narrativa.
E questo è il secondo aspetto sul quale vorrei soffermarmi.
Il libro appartiene ad un filone realista, a metà strada fra il modello manzoniano e quello russo tardo ottocentesco.
Da una parte la storia è ambientata in un tempo definito, che abbiamo detto, e in uno spazio definito, Genova e qualche propaggine, in riviera e in Piemonte.
Tempo e spazio che servono però esclusivamente a connotare la storia, che giganteggia sullo sfondo sempre con le vicende più grandi, quelle che travolgono i personaggi e che consentono ad Anna di percepire di avere ormai “la certezza che la sua vita, come un piccolo ruscello affluente in un fiume, non dipendeva più da lei”.
Sono appunto soltanto un tempo e uno spazio funzionale, la vicenda di Anna infatti è subito data in chiave emblematica: è una delle migliaia di donne che hanno dovuto confrontarsi con la guerra, anzi meglio con il gioco della guerra, che decidono e fanno gli uomini; ci vuole la Resistenza per proporci una figura femminile che partecipa se mi è consentito a questo gioco.
Anche in questa scelta la mano felice di Zunino coglie un passaggio della società al femminile: la donna acquisisce una nuova consapevolezza, che le viene dalle decisioni continue e quotidiane che ha dovuto imparare a prendere in assenza degli uomini tutti, volenti o nolenti, ficcati nel profondo della tempesta.
E come per Anna la guerra è vissuta nella sua quotidianità dalle altre figure femminili, che sono rimaste sole, insieme a qualche vecchio e ai bambini, a combattere invece la battaglia della sopravvivenza, con il carico appunto dei bambini e dei vecchi, nella città che si disfa fisicamente, che muta le sue coordinate, una progressiva coralità nel romanzo che esprime i sentimenti di tutti, ed è appunto una coralità femminile.
Emblematica è la pagina in cui leggiamo di Anna, che sta partendo per Torino; siamo nell’autunno del ‘44. I treni accumulano ormai grande ritardo.
Dall’altra parte però la storia che Zunino racconta è, come si diceva, percezione nell’intimo delle vicende che accadono, analisi del vissuto a livello di coscienza; la guerra è esperienza tragica che impone scelte, che induce riflessioni, che costringe a fare i conti con il bagaglio delle credenze, che spinge a rivedere i valori di riferimento della società e a porli a confronto con quelli individuali.
In questo raccontare si snoda la trama sottile che investiga il fluire lento delle sensazioni che poco per volta portano a prendere coscienza di chi siamo davvero.
Quasi tutti i personaggi, anche i più terribili, hanno un momento in cui si confrontano con se stessi; alcuni, come Giacomo il fedifrago marito di Anna, non riescono a staccarsi da ciò che in loro è falso per giungere ad una genuinità di sentimenti, ma altri, come persino la spia dell’OVRA responsabile di buona parte della tragedia di Anna, alla fine sente intera la vacuità del suo credo, sente intero lo spreco della sua vita e si uccide, dopo aver confessato il vuoto della sua esistenza ad Anna.
Ma i più, ed è questa la terza notazione che propongo, sono i personaggi che inizialmente sono indifferenti al fascismo, se mai avvertono la paura della guerra.
Poi pian piano mutano, scoprono il valore primo della solidarietà, proprio quel valore che il fascismo fondato sulla delazione, sul sospetto, aveva minato.
La guerra spinge infatti a ricercare il bisogno di stare insieme, incita a fidarsi degli altri, costringe ad aver bisogno degli altri, fa scoprire così un mondo di interazioni che sembravano essere dimenticate, consente di lasciar trasparire liberamente i sentimenti, svela l’animo umano nei suoi aspetti †migliori, ripropone valori che sembravano essere stati sepolti.
La violenza della gente alla caduta del fascismo contro le persone che lo avevano rappresentato o contro i simboli che lo avevano incarnato è lo sfogo di chi finalmente ha scoperto per cosa vale la pena combattere, cioè combattere contro ciò che ha colpito l’uomo nella sua intimità, inducendogli attraverso il sospetto, la paura dell’altro.
È la lotta contro chi lo ha isolato dagli altri, contro chi, in nome di un’idea, ha messo i figli contro i padri, i fratelli contro i fratelli, l’uno contro l’altro.
Contro il germe della violenza eretta ad ideologia.
E se all’inizio del romanzo appunto il padre non può fidarsi del figlio e il figlio si rifiuta, in nome dell’idea appunto, di aiutare il padre, di evitare una così dolorosa sofferenza alla madre da morirne di crepacuore, se non c’è solidarietà se non a prezzo della corruzione, se anzi sembra che ognuno spii l’altro a proprio vantaggio, pian piano la guerra mostra interamente la vanità di un simile comportamento e costringe a riflettere e a trovare una nuova dimensione di valori in cui riconoscersi e in cui credere.
Su tutto, sempre presente, è la figura di Anna che di quella evoluzione è figura cardine.
Giovane sposa, giovane madre, lasciata da parte da un marito che ha sposato la causa del fascismo e sta con un’altra donna, è colta all’inizio mentre vive all’ombra dei suoceri e sembra non dover pensare a nulla.
Poi la tragedia dell’arresto del suocero la scuote e scopre il mondo come è fatto, ma ha i genitori che la proteggono e l’aiutano, la guerra, con i suoi primi terribili bombardamenti che giungono inaspettati dal mare, glieli toglie e allora eccola sola con la figlia che pian piano diventa lei quella che aiuta gli altri, con un sentimento che la aiuta sempre in ogni momento: si sta vivendo una tragedia contro la quale si può opporre soltanto la forza del proprio coraggio, la certezza delle proprie convinzioni morali.
Ad evitare che Anna sia personaggio manzonianamente perfetto come Lucia c’è il suo innamoramento per un uomo che, la prima volta che le confessa di amarla, la fa sentire “come se avesse vissuto per anni accanto a lui in una precedente esistenza”, cioè le fa scoprire una parte di se stessa che neppure lei conosceva.
Un amore che resta casto per anni, ma che la spinge una notte a lasciare sola la propria figlioletta per raggiungere l’uomo che ama, Aldo, alla stazione per un rapido saluto fra un arrivo e una partenza di un convoglio militare.
E questo amore la rende profondamente umana, ma è un altro elemento della sua certezza a proseguire nella sua quotidiana guerra, quella vissuta nel privato, nel ripetersi della quotidianità, nella speranza di una fine di quella guerra che sembra non finire mai.
E l’uomo che di lei innamorato e che lei ama, vive anch’egli un travaglio interiore profondo e l’autore gli affida il compito di rappresentare i turbamenti della gioventù italiana di fronte al dilemma se riprendere a combattere con i fascisti o contro di loro, dopo l’8 settembre.
È bella la pagina in cui Aldo, nascosto nella sua casa a Torino, chiama Anna per parlare con lei di questa scelta, e la risposta di Anna è una chiave di lettura di tutto il romanzo.
Tutta la consapevolezza ormai raggiunta di Anna e della gente di fronte alla precarietà della vita, c’è tutta la speranza che impedisce di autodistruggersi, c’è la matura considerazione dei sentimenti umani e c’è la sensazione di non essere più padroni di nulla.
Il fascismo e la guerra hanno infatti espropriato la gente della propria intimità, nel gioco perverso prima del sospetto e poi della guerra che costringe tutti a mettersi in fila, a immaginarsi la sopravvivenza, a mescolarsi nei rifugi, a dormire con gli altri, a dimenticare i comfort e a viaggiare in un carro merci.
Tutto è divenuto pubblico e l’autore sembra lasciar trapelare questo sentimento nella costruzione di alcune bellissime pagine sui grandi sconvolgimenti pubblici che la guerra produsse.
Ma non mi compete questa parte, che tocca all’on. Cerofolini.
Tante sono le cose che meriterebbe questo romanzo di Zunino, e forse avrebbe meritato ben altro lettore pubblico.
Io voglio concludere dicendo che c’è ancora un altro aspetto manzoniano nel romanzo, è la sua intrinseca finalità: scritto perché si capisse un momento della nostra società e della nostra storia, perché lo capissero le persone che non avevano visto e vissuto quelle esperienze e tutto è scritto perché tutto si capisca e tutti capiscano, nulla è lasciato all’intuizione del lettore e nulla gli è dato in forme non di grande semplicità lessicale, il che richiede un notevole sforzo tecnico.
Grande romanzo pedagogico per una società che ha dimenticato la funzione civile della lettura e per questo pensa che si possa anche non più leggere I Promessi Sposi; certo potremmo non leggerli più ai nostri ragazzi, perché il Risorgimento è lontano, c’è stato altro nella nostra società; altro, appunto questa guerra, di cui parla Zunino, questa guerra che per la prima volta ha fatto sentire gli italiani, non illusoriamente eredi di un passato storicamente improbabile e usato per illustrare grandezze non più possedute, ma li ha fatti sentire nella comune partecipazione ad una tragedia nata dall’ignoranza e dall’indifferenza, li ha fatti sentire nella consapevolezza dei valori della libertà e della democrazia, valori nei quali io ritengo varrebbe la pena di credere ancora e di fare in modo che i nostri studenti ci credessero pure loro.
Da insegnante e non da critico letterario, che peraltro non sono, io penso che il romanzo Come foglie portate dal vento sia una bella pagina di educazione alla civiltà, alla libertà, alla democrazia, e penso che di questa educazione ci sia ancora tanto bisogno.
La sera stessa, l'autore mi fece pervenire una copia firmata, con un attestato di stima, che conservo tuttora con grande attenzione.
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