Intervento tenuto giovedì 16 gennaio 2020, presso lo Studio Novelli, Genova.
1.
«Nel mezzo del cammin di nostra
vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.»
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.»
La
più bella metafora di una crisi di mezza età o di un’età di mezzo o un’età in
mezzo a…; che la crisi si apra nel mezzo
del cammin di nostra vita, tradizionalmente fissata nei 35 anni di vita, lo
ricorda Dante nel Convivio…lo punto sommo di questo arco [della vita terrena] ne li più credo [sia] tra il trentesimo e il quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno…[1]; e rimanda a riferimenti antichissimi, e forse il più
antico al Salmo XC…I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni;//o, per i
più forti, a ottant’anni;//e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e
vanità;//perché passa presto, e noi ce ne voliam via. Dante ci racconta la sua crisi, crisi dell’individuo, che
eleggo per addentrarci in questo argomento, a metafora della crisi che ogni
individuo affronta quando giunge al momento di svolta della cosiddetta mezza
età, e inevitabilmente si fanno i conti con la vita; teniamo conto che nel
nostro tempo il prolungamento della durata della vita inevitabilmente sposta
poco più avanti la metà del cammin.
Cammin, dice Dante cogliendo
ancora una volta dalla Bibbia, questa volta dal Nuovo Testamento, da Paolo, che
aveva sostenuto…dum sumus in corpore peregrinamur a Domino, per fidem enim ambulamus et non per speciem[2],
esortando a comprendere il senso del camminare nella fede; Dante aveva già
esposto questo concetto nel Convivio[3], dove aveva chiarito anche il senso di selva oscura, strada erronea, il luogo-tempo in cui l’anima si perde, e si entra così in una specie si sonno-veglia, che consente un di più di percezione e si prende consapevolezza che si sono smarriti i contorni del reale, che le coordinate esistenziali si sono confuse; per il momento si sa soltanto che si è in una crisi, dalla quale occorre uscirne, si deve affrontare un itinerarium mentis, se si può, se si riesce a individuare la via d’uscita, forse da soli non sarà possibile, forse ci vorrà un aiuto esterno, un aiutante. Dante fa la sua proposta etica e teologica, trascendente, guardando alla via del Bene, al Bonum che è nell’ordine cosmico di Dio: mettersi su un altro cammino è affrontare l’itinerarium mentis in Deum[4] secondo l’indicazione di Bonaventura da Bagnoregio[5]. Da una crisi non se ne esce, se non con un itinerarium mentis, se si rifiuta la via della trascendenza si può scegliere di viaggiare
sul divano dello psicanalista, piuttosto che su quello del confessore, oppure si
può sedere con il partner davanti al consulente di coppia, o, visto che si è
sempre più dediti alla frammentazione specialistica, sedersi davanti al
consulente più opportuno, rebus sic
stantibus. Torno ancora sulla metafora dantesca, perché ha in sé elementi
di grande utilità, innanzi tutto perché la crisi non è esplosa all’improvviso,
infatti ci si ri-trova ovvero si è
giunti: alle spalle del punto di crisi c’è
stato un percorso, che si può non
aver valutato, persino non averlo
percepito, per cui può apparire all’improvviso che la diritta via è smarrita, ma non
ci si è giunti per caso, come Dante stesso afferma…Io non so ben ridir com’ì v’intrai,//tant’era pien di sonno a quel
punto//che la verace via abbandonai[6].