domenica 19 gennaio 2020

PROSTITUZIONE e MORALITÀ PUBBLICA nella GENOVA del '400

Quando i Padri del Comune promulgarono, nel novembre del 1459, i Capitoli del Postribolo pubblico, quell'istituzione era in Genova una realtà ormai secolare (1).
L'apertura del postribolo pubblico infatti risaliva ai primi del XIV secolo, ed era stata determinata dalla volontà di offrire una valida alternativa alla diffusione della prostituzione libera e privata, considerata una pericolosa fonte di tensione e di disordine sociale. 
Una simile concezione fu comune a tutta quanta l'Europa (2), tuttavia Genova precedette di un bel torno d'anni le altre città, italiane ed europee, nell'istituire il postribolo pubblico.
Alla metà del XIII secolo, la meretrix, è una figura familiare della strada o della taverna in tutta Europa, ormai da lungo tempo: tollerata dalla Chiesa che ne accetta l'elemosina, essa è complice indispensabile della commedia cittadina.


A quella data però cominciavano a maturare nuove concezioni della vita, della moralità e particolarmente della sessualità. In Francia Luigi IX il Santo ordinava, nel 1254, di cacciare le prostitute dalle città e, nel 1269, in procinto di partire per la Crociata, ribadiva il suo programma di moralizzazione pubblica inteso a reprimere la prostituzione, il gioco, la bestemmia e l'usura. Benché questo piano risultasse privo di efficacia, ebbe comunque la conseguenza di bollare la prostituzione che cominciò ad essere considerata qualcosa di infamante. Nello stesso periodo anche la Chiesa cominciò a considerare impura la donna meretrix, e così come aveva già escluso dal consorzio civile i lebbrosi e stava iniziando ad escludere gli ebrei, ora si rivolse a questo altro gruppo sociale, indicando la necessità di separare quella categoria di donne dalle altre. La Chiesa suggeriva dapprima l'imposizione di un segno distintivo per le prostitute, così come aveva già indicato fin dall'inizio del secolo per quanto riguardava gli ebrei, e successivamente proponeva una legislazione apposita mirante a separare anche fisicamente questi due gruppi sociali dal resto dei cittadini. 
Non ci fu dunque a livello ecclesiastico un'operazione mirante ad eliminare la prostituzione, ma piuttosto un tentativo di circonscriverla entro appositi spazi, considerandola dunque "un male minore". Alla base di questa scelta stavano quelle nuove idee, di cui si faceva portavoce S. Tomaso, miranti sia a riabilitare la natura, sia a considerare più gravi i peccati spirituali rispetto a quelli della carne. 
Frate Lorenzo, direttore spirituale dei figli del Re di Francia, Filippo l'Ardimentoso, indicava tre colpe, fra i peccati della carne, che sono assolutamente da evitare ''il peccato contro natura, nella propria o nella altrui persona, il desiderio della donna d'altri, compiere cose disoneste nel matrimonio". 
In questo modo il rapporto con le ragazze comuni trovava una qual certa legittimazione; S. Tomaso poi aveva riconosciuto che ogni individuo ha una sua funzione all'interno della collettività: "Ciascuno compie la sua missione per la salvaguardia di tutti". E così anche la meretrix veniva ufficialmente investita di un suo ruolo, utile per il bene sociale. S. Tomaso poi si era spinto ancora più avanti "Dio permette che avvengano mali nell'Universo e li lascia esistere per timore che se essi fossero soppressi, i più grandi beni lo sarebbero altrettanto o che non ne dovessero seguire i peggiori mali". La prostituzione era un male necessario, da tenere sotto controllo e sorvegliato in luoghi circoscritti, ma del quale non si poteva fare a meno. 
L'integrazione della prostituzione nella società aveva trovato concordi teologi e canonisti, i quali richiamandosi all'autorità di S. Agostino parevano con lui dichiarare che "i lupanari sono una cosa tollerata da pane della città terrestre".
A poco a poco dunque la prostituzione viene organizzata e regolamentata per il bene comune, riconoscendole una sua funzione essendo essa una necessità sociale. 
Anche a Genova sul finire del XIII secolo, il Vescovo Jacopo da Varagine, che fu tra l'altro il diffusore in città delle nuove concezioni tomistiche, scrive nella sua Cronaca della città di Genova, che vi sono tre categorie di donne, quelle "probate que non sunt custodiende, quelle medie, que nec adhuc sunt bene probate nec omnino suspecte e infine quelle suspecte que sunt custodiende et legibus artande". Quelle sospette devono essere custodite e controllate per mezzo delle leggi. Anche il Nostro Vescovo non dice che debbono essere impedite nella loro attività, ma soltanto che si deve fare in modo che siano impedite dal commettere multis malitiis
Era questa ormai, nella seconda metà del XIII secolo, l'opinione prevalente della Chiesa, che si trovava a dovere legittimare socialmente la figura della meretrix, la quale tuttavia doveva essere sottoposta ad un controllo da parte dell'autorità, confinata in appositi spazi, per non turbare né con le molestie, né con la sua palese immoralità, il decoro e la tranquillità della cittadinanza. 
Questa evoluzione della mentalità è ben riscontrabile a Genova alla fine del XIII secolo. In alcuni documenti notarili si trovano le lamentele dei cittadini, che protestano presso l'autorità affinché intervenga al fine di allontanare mali homines et meretrices da alcune strade in quanto multa rixe fuerunt ed intervenerunt (3).
Così si giungeva, già nel periodo a cavallo fra XIII e XIV secolo, alla realizzazione di una forma di prostituzione legalizzata e sottoposta al controllo dell'autorità. Infatti le prime notizie sicure del postribolo ormai funzionante risalgono al periodo compreso fra il 1330 e il 1339: in un rogito notarile è menzionato infatti il bordelo casteleti, che dunque era fin d'allora sistemato nella contrada Fontane Marose, fra la Maddalena e la collina di Castelletto, dove rimase fino alla metà del XVI secolo, quando venne abbattuto per far spazio alla costruenda Via Nuova (4). 
Altrove invece le notizie relative al funzionamento di un postribolo pubblico o di una casa comune sono più tarde: Venezia apre il suo Castelluccio nel 1360, Firenze e Lucca istituiscono la loro Casa soltanto dopo il 1400, in Provenza la casa di Tarascona è menzionata per la prima volta nel 1374 e la grande Casa comune di Digione viene aperta nel 1385 (5). 
L'anticipazione genovese di una o più generazioni, rispetto alle altre città, è verosimilmente da imputare al più rapido sviluppo economico e mercantile del porto ligure; l'accelerazione impressa dall'attività mercantile aveva qui prodotto quelle modificazioni di carattere sociale e di mentalità, che si manifestarono altrove più lentamente e vennero alla luce soltanto fra la fine del XIV secolo e la prima metà di quello successivo. 
La nuova struttura mercantile e borghese, che era andata configurandosi a Genova fin dal XII secolo, si esprimeva in una società più mobile ed eterogenea, nella quale anche la sessualità trovava forme di realizzazione meno rigide e più immediate, tese tuttavia alla salvaguardia delle moralità urbana, e soprattutto del matrimonio e della famiglia. L'istituzione del postribolo pubblico significava riconoscere ufficialmente la prostituzione, ma anche limitare il danno sociale e morale che poteva venire dalla prostituzione praticata liberamente. 
Evidentemente il grande numero di forestieri che giungeva a Genova, soffermandosi per periodi più o meno lunghi, se da una parte rappresentava il segno più vistoso della conquistata potenza economico-mercantile, dall'altra però creava pur sempre un problema d'ordine sociale, al quale occorreva trovare adeguate soluzioni per renderlo il meno disturbante possibile e nel contempo mantenere comunque i benefici che esso produceva. 
Per questi motivi Genova arrivò a considerare, in anticipo rispetto al resto dell'Europa, che l'apertura di un postribolo pubblico potesse essere sia una risposta efficace al mantenimento dell'ordine, sia una tutela della moralità dei cittadini garantendo però la continuità dei servizi offerti dalla prostituzione. 
Relegata nel postribolo comunale, la prostituzione avrebbe continuato ad assolvere gli stessi compiti di quando era esercitata liberamente sulla strada o nelle taverne, svolgendo una funzione moderatrice delle pulsioni sessuali dei giovani, degli scapoli, degli stranieri. Svolgendosi però al riparo degli sguardi dei cittadini assumeva anche una funzione moralizzatrice all'interno della società urbana e separando le ragazze comuni, perdute sebbene utili, dalle altre impediva pericolose confusioni. 

L'esigenza primaria era stata dunque quella di contrastare per motivi sociali e morali, i negativi effetti della libera prostituzione. Ma l'apertura di una casa comune dovette richiedere da subito la messa in atto di una procedura legislativa atta a obbligare le meretrices, che esercitavano liberamente, a continuare la loro attività professionale all'interno dell'istituzione pubblica. Essa è rilevabile già dal primo documento che ci attesta il funzionamento del bordelo casteleti.
Lì si parla infatti di Lucia femina vagabunda que habitat in bordelo, la qual cosa significa che Lucia era una ragazza vagabonda, termine usato per indicare le ragazze che esercitavano liberamente, ma che ora era stata costretta ad andare a vivere e quindi a continuare l'esercizio della sua professione all'interno del bordelo pubblico (6). 
Questa sollecitudine di contrastare i nocivi effetti della prostituzione esercitata liberamente, traspare ancora dai Capitoli, più di un secolo dopo l'apertura del postribolo pubblico, e dacché la nostra Lucia veniva perseguitata perché vagabunda.
I Capitoli infatti definiscono chi siano le meretrici pubbliche: sono coloro che vivono all'interno del bordello, sia che vi fossero entrate per scelta propria, sia che vi fossero state condotte a seguito di una sentenza dell'autorità. Infatti quelle donne che sine differentia sui corporis questum faciunt se publice exibendo cuicumque persone pro pecunia, venivano dichiarate pubbliche ed erano costrette o ad entrare nel bordello oppure ad abbandonare la città entro cinque giorni dalla dichiarazione della sentenza. 
Come si vede la ragazza che si metteva sulla strada era perseguibile in quanto lo faceva pro pecunia. Quella che lo faceva per diletto dunque non poteva entrare nelle maglie della legislazione riguardante la prostituzione, essa era perseguibile soltanto per gli aspetti immorali del suo comportamento. 
Anche in questo caso a fornire il contenuto ideologico della distinzione aveva provveduto la nuova concezione della morale. Tomaso di Chabam aveva cominciato a dire che le ragazze che si prostituiscono per piacere non compiono un vero lavoro e la loro attività è abominevole. San Tomaso poi aveva preso in esame il caso delle ragazze che invece si vendevano per necessita, le quali "vendono il loro corpo e forniscono un lavoro" e aveva persino indicato le regole della morale professione della prostituzione. Si trattava dunque di una professione e come tale doveva avere le sue regole, fondate sul principio del lavoro, cioè sul salario; lavoro da svolgersi all'interno di strutture organizzate, nelle quali può entrare la ragazza che ha rotto le sue relazioni familiari (o non ne ha mai avuto) divenendo una persona "privata pubblicamente disponibile". 
Queste idee, come abbiamo detto, erano penetrate in città soprattutto grazie all'opera del Vescovo Jacopo da Varagine, il quale si era fatto portavoce delle concezioni tomistiche funzionali a legittimare nella civitas la possibile realizzazione del bonum commune, che passava anche da una riconsiderazione della moralità. 
Genova ponendosi in prima linea a chiudere con l'istituzione del bordello pubblico una polemica ricca di sottili distinguo, anche in questo caso rivela che le sue forme del mutamento sono più rapide che altrove. Candidandosi a Signora del Mediterraneo, nel momento in cui apre l'età dei successi totali, Genova aveva già consumato un iter di mentalità, che altrove era ancora in fieri


II parte 

Il postribolo genovese era stato collocato fra la Maddalena e la collina di Castelletto, nella contrada Fontane Marose, ai margini quindi della città commerciale (8). 
Con questa scelta Genova sembra porsi in posizione discordante rispetto alla prassi seguita successivamente dalle altre città, che, solitamente, posero il loro bordello pubblico al centro, in posizione prossima agli incroci di maggior intensità del traffico commerciale; tuttavia la scelta genovese fu probabilmente condizionata dalla particolare conformazione del tessuto urbanistico della città, piuttosto che da ragioni miranti ad emarginare il postribolo per motivi di moralità. 
Con il tempo esso venne chiamato Monte Albano e in questo modo si trova citato nei Capitoli. Non sappiamo però da dove traesse origine siffatta denominazione, che è piuttosto tarda rispetto all'apertura del bordello stesso, il quale peraltro nella documentazione esaminata è chiamato anche bordelo, oppure bordelo Casteletiloci communi januepostribulo civitatis
Il Monte Albano in sostanza era uno spazio urbano riservato all'attività del meretricio; concretamente esso era costituito da una serie di case, dove avevano sede diversi postriboli, chiamati "casipole", gestiti da lenoni autorizzati all'esercizio della professione, i quali rispondevano del loro operato ad una singolare figura di Potestas loci communi
Il postribolo pubblico era quindi un'entità astratta, limitandosi ad essere una zona franca dove lenoni e prostitute erano autorizzati ad esercitare il loro mestiere, con l'unico vincolo di rispettare le leggi stabilite ad hoc dall'autorità comunale e poi condensate nel 1459 nei Capitoli (9). 
L'Opera del porto e del molo era la legittima proprietaria del postribolo, che veniva concesso in appalto a colui che ne garantiva la migliore resa, dopo una gara regolare, che solitamente veniva indetta ogni due anni; il gestore, acquisendo la gestione del postribolo, assumeva la carica di Potestas loci communi
All'asta pubblica concorrevano varie persone, sovente si formavano per l'occasione società di più persone; quasi sempre si trattava di qualche lenone di una di quelle casipole esistenti all'interno del Monte Albano: evidentemente egli cercava di dare la scalata al vertice dell'organizzazione; era praticabile anche la possibilità di concedere la gestione acquisita in subappalto per tutto il periodo o per periodi limitati (10). 
Il Potestas versava all'Opera del porto e del molo sia la quota pattuita nella gara d'appalto sia il ricavato delle multe che egli era autorizzato ad infliggere ai contravventori dei Capitoli. L'Opera del porto e del molo impiegava questi proventi per i propri fini statutari. I Capitoli citano infatti testualmente Infrascripta sunt capitula et ordines potestacie postribuli vocati Monti Albani que…ad hoc ut per ipsos Patres Communis et salvatores melius possit vendi introitus dicti foci ad utilitatem communis et operis portus et moduli ut infra
Questo fatto ci induce però ad un'ulteriore considerazione circa la preoccupazione dei governanti di reprimere la prostituzione privata; infatti quest'ultima, oltre i già considerati motivi d'ordine sociale, nonché di tutela della moralità pubblica, era ovviamente considerata anche una forma di concorrenza economica che sottraeva fondi all'istituzione pubblica. 
Il Potestas esercitava il suo potere all'interno del Monte Albano e anche fuori di esso per quanto concerneva il controllo sulla libera prostituzione nella città; era a lui infatti che i Capitoli demandavano l'obbligo di far rispettare i provvedimenti relativi alla repressione della prostituzione sulla strada o nei bordelli privati. Lo stimolo economico, anche in questo caso, doveva garantire sufficientemente che il Potestas avrebbe ben vigilato al di fuori del Monte Albano. 
A questa singolare figura podestarile competeva inoltre di controllare che le donne che entravano nel postribolo pubblico avessero "le carte in regola", ovvero non fossero sposate, non fossero schiave, ancorché affrancate di genovesi o di stranieri che dimoravano in città; a costoro egli doveva dare immediato sfratto e farle riaccompagnare presso il legittimo proprietario; alle donne ammesse invece provvedeva a dare alloggio, in una delle casipole, assicurandosi che avessero un letto, secundum morem et consuetudinem dicti loci; è molto probabile che la donna venisse avviata nella casipola del lenone che aveva provveduto a reclutarla. 
Soltanto la donna libera da vincoli matrimoniali o da proprietà poteva dunque dedicarsi all'attività del meretricio; anche in questo caso, come abbiamo già indicato, emerge la concezione morale tomista, la quale fra l'altro aveva anche sentenziato che "la colpa è tanto più grave quanto più tocca un maggior numero di persone", pertanto guai alla ragazza che con il suo mestiere avesse infamato le persone a lei vicine: ogni ragazza doveva essere libera da ogni vincolo. 
Gerson nei suoi Paenitemini aveva motivato i rischi derivanti dall'accettare una prostituta con legami familiari: "Se avete giovani fanciulle, sorelle, cugine, vorreste voi che fossero abbandonate a tutti gli uomini?". L'obiettivo primario era sempre quello di difendere la sacralità della famiglia, la qual cosa ovviamente lasciava alle sole ragazze "senza famiglia" la possibilità di svolgere la funzione sociale del meretricio. 
L'impedimento per le schiave si fondava indubbiamente su un fattore di tipo economico: esse erano parte della proprietà del padrone e soprattutto se erano giovani e in condizione di avere figli potevano accrescerne la proprietà; si voleva dunque evitare che il bordello diventasse una possibile alternativa alla vita della schiava. Tuttavia per le relazioni che le schiave, soprattutto a Genova, finivano per stabilire con i loro padroni, diventando molte di esse vere e proprie concubine, non è fuor di discussione che subentrasse anche un motivo d'ordine morale, non essendo più le schiave donne libere da legami familiari. 
Per ogni donna che entrava nel postribolo, il Potestas stabiliva l'ammontare della tassa quotidiana che essa avrebbe dovuto pagare per il periodo della permanenza in quel luogo; la quota era stabilita secundum facultatem et possibilitatem earum, ad insindacabile giudizio del Potestas
Sembra trattarsi di una sorta di tassa di produzione stabilita sulla stima del successo professionale che ogni singola meretrix poteva conseguire. Poiché le donne non si soffermavano a lungo nello stesso bordello, non era evidentemente necessario provvedere al periodico aggiornamento di tale tassa; soltanto per i tempi lunghi di soggiorno sarebbe stato necessario rivedere periodicamente la stima effettuata all'atto di ingresso, considerando sia il processo di deterioramento della donna, sia la migliore capacità professionale eventualmente acquisita con l'esperienza (11). 
I Capitoli ponevano comunque un limite massimo, fissato in cinque soldi, oltre il quale il Potestas non poteva esigere, anzi erano previste sanzioni severe per quel podestà che avesse richiesto tasse oltre quel limite. 
Al Potestas competeva inoltre di provvedere alle necessità delle donne residenti all'interno del Monte Albano, quando costoro non fossero state in condizione di esercitare la loro prof essi on e; era una sorta di forma previdenziale a favore di quelle donne che, per vari motivi, erano impedite nell'esercizio della loro attività. Costoro non soltanto venivano esentate dal pagamento della tassa quotidiana, ma dovevano ricevere ogni conforto e cura per un rapido ristabilimento e nel malaugurato caso che l'indisposizione si protraesse, il Potestas doveva provvedere per un asilo all'interno del Monte Albano; la donna in questo caso doveva quindi abbandonare l'alloggio e il letto che aveva ricevuto all'entrata, ma trovava ugualmente un ricovero. Qualora però l'indisposizione fosse la conseguenza di "un incidente sul lavoro" il Potestas aveva diritto di rivalersi sul cliente che l'aveva provocato, esigendo tanto le spese sostenute per prestare conforto all'infortunata, quanto il mancato guadagno derivante dall'inattività della donna.
Il Potestas regolava la vita che si svolgeva all'interno del Monte Albano, dove praticamente circolavano tre categorie di persone: i ruffiani, le meretrici, i clienti. Per governare questo eterogeneo popolo, il Potestas era autorizzato a contornarsi di robusti servitori e tanto a lui quanto a loro era concesso di portare armi offendibilia et defendibilia, sia all'interno sia all'esterno del postribolo. 
Il Potestas godeva di un'autorità sovrana all'interno del Postribolo, che funzionava tutti i giorni, ad esclusione del dì del sabato, quando le meretrici godevano di una pausa e potevano uscire dal Monte Albano per andarsene a spasso per la città; era questa l'unica occasione concessa alle meretrici di varcare i confini del postribolo. 
Era il Potestas che determinava l'orario di chiusura, ad una certa ora della notte, delle attività: tramite il suono di una campanella avvertiva tutti i clienti che dovevano nel giro di poco tempo abbandonare il bordello; tuttavia, dietro pagamento di una sovratassa, che i Capitoli non determinano e quindi era affidata probabilmente alla libera contrattazione, il Potestas poteva autorizzare il cliente che lo desiderasse a trattenersi per il resto della notte. 
Il Potestas quindi godeva di un ampio margine di discrezionalità nell'amministrare il postribolo pubblico, sia nel fissare la tassa delle donne, sia nel determinare l'orario di funzionamento, sia nel concedere deroghe ai clienti; non è difficile immaginare che con un simile potere la sua possibilità di rivalersi della rata, a suo tempo pagata per ottenere la gestione, era sicuramente garantita. 
A questo singolare personaggio correva l'obbligo di far rispettare le norme contenute nei Capitoli e comminare le pene previste per i trasgressori, demandando all'autorità pubblica solamente coloro che si marchiavano di reati perseguibili a norma degli statuti criminali. 
Di tutta quanta la sua attività di gestore della cosa pubblica ne rispondeva al Governatore della città. 
Alle donne del Monte Albano non erano imposte né misure di carattere igienico, né segni di riconoscimento quando erano in libera uscita, anche questo contrariamente a quanto di solito accadeva in altre città.
Tuttavia nella seconda metà del XV secolo, contemporaneamente all'emanazione di provvedimenti atti a frenare la libera prostituzione, si impose alle donne del Monte Albano di non abbigliarsi secondo la foggia delle donne genovesi, ricorrendo così ad una parziale ed indiretta misura di riconoscimento. 
Numerose sono le disposizioni dei Capitoli riguardanti il controllo dell'ordine all'interno del Monte Albano, tendenti ad evitare ogni focolaio di tensione. Ruffiani, meretrici e clienti non devono bestemmiare, essere insolenti, provocare risse; tutti dovevano riconoscere l'autorità del Potestas, al quale si doveva rispetto. 

Particolare attenzione è posta nel considerare che le meretrici non escano dal postribolo se non nel tempo previsto, cioè al sabato, e soprattutto che non uscissero causa peccandi, ovvero per svolgere la loro professione a domicilio del cliente. Nessuna limitazione è invece posta alla clientela, infatti non si fa cenno, come accadeva invece in altre città, all'interdizione per giovani o per i genovesi coniugati. 
Il postribolo funzionava dunque a ritmo continuato e non erano previste interruzioni, oltre al dì del sabato, neppure in occasione delle solennità religiose, come accadeva invece alla più parte di consimili istituzioni nel resto d’Europa. 
Può essere che una qual certa minore rigidità di regolamentazione esistente a Genova dipenda pur sempre dalla particolare situazione della città, che era sempre affollata di stranieri. Una parziale conferma viene dal fatto che il postribolo non si chiude durante le feste religiose, quando forse occorreva rispondere con rinnovata attività all'esuberanza di uomini che non avevano iii città nessun punto di aggregazione, né altre occasioni di svago e che, proprio per questo, potevano diventare una forza pericolosa all'interno della compagine sociale. 
Come vedremo meglio più avanti, nel momento in cui la città vedeva diminuire la sua vivacità economico-mercantile, verso la fine del XV secolo, le misure di controllo si fecero più severe. 

Chi erano le donne che si dedicavano alla prostituzione all'interno del Monte Albano? 
I Capitoli si limitano a dire che le "meretrici pubbliche" erano quelle donne "che vivono all'interno del Monte Albano"; tuttavia chiariscono che esse potevano anche essere state costrette ad entrarci. Infatti le donne colte in flagrante esercizio della prostituzione fuori dallo spazio del postribolo pubblico, erano dichiarate meretrici pubbliche e costrette o a proseguire la loro attività entrando al Monte Albano, oppure ad abbandonare la città entro cinque giorni dalla dichiarazione della sentenza. Teoricamente dunque tutte le altre donne che si trovavano all'interno del Monte Albano avevano scelto liberamente di entrarvi. 
In realtà a spingere la donna ad entrare nel postribolo pubblico era un precedente stato di condizionamento sociale. Il più delle volte si trattava di uno stato di sudditanza debitoria, altre volte l'aver subìto uno stupro. Almeno questo appare dalla documentazione reperita; non è difficile tuttavia immaginare che la condizione di ragazza priva di legami familiari o in qualche altra situazione di emarginazione sociale, potessero favorire quel tipo di scelta di vita. 
I rogiti notarili ci mostrano soprattutto il caso di donne che si impegnano davanti al notaio ad esercitare per un certo tempo l'attività di prostituta al fine di sanare un debito da esse contratto. Poiché il creditore è solitamente un lenone, è ipotizzabile che il prestito di somme alle ragazze sole e prive di risorse, fosse una forma di reclutamento della prostituzione messa in atto appunto dai lenoni (12). I debiti frequentemente venivano rinnovati alla scadenza del primo periodo durante il quale le ragazze avevano lavorato per estinguerlo, poiché evidentemente esse al termine di quel primo periodo si trovavano nella stessa situazione di indigenza che lo aveva determinato; a quel punto probabilmente si rendevano anche conto della spirale in cui erano andate a capitare, ma non erano più in condizione di romperla, poiché per uscire dal postribolo bisognava impegnarsi ad andare a vivere lontano da esso dimostrando un onesto comportamento, che forse non potevano però più permettersi di programmare. Proseguire nella carriera intrapresa a quel punto diventava una scelta obbligata. 
Il secondo caso veniva a determinarsi quando una ragazza subiva uno stupro ed era quindi disonorata; la documentazione esaminata non ci illumina su questa condizione, sono tuttavia gli stessi capitoli a prenderla in considerazione e pertanto essa doveva verificarsi con una certa frequenza. Anche in questo caso inoltre la morale corrente, sempre fondandosi su San Tomaso, non lasciava molte altre prospettive di vita alle ragazze vittime di stupro. Infatti considerava che la vittima se "non veniva sposata dal suo seduttore, troverà più difficoltoso trovare marito e così potrà essere indotta ad abbandonarsi a quella lussuria dalla quale fin allora la teneva lontana un intatto pudore". Così il Santo e così la morale corrente, talché alla fine la ragazza vittima era depositaria di qualcosa di impuro, che era destinato a crescere dentro di lei conducendola sulla cattiva strada. 
I Capitoli prevedono che le donne vittime di stupro potessero entrare nel postribolo pubblico anche se erano genovesi ed era questo l'unico caso che consentiva alle donne della città di entrarvi senza essere costrette da una sentenza dell'autorità; infatti le ragazze raramente erano ammesse nel postribolo della loro città, la qual cosa probabilmente discendeva da motivazione d'ordine sociale. 
Alle ragazze violentate e che non potevano aspirare ad un matrimonio il legislatore genovese aveva lasciato aperta la porta del Monte Albano, consapevole forse che prima o poi vi sarebbero entrate a seguito di una sentenza; tuttavia il legislatore genovese sembra manifestare nei confronti di queste ragazze una sensibilità particolare: soltanto ad esse infatti veniva consentito di ripensare le scelta operata, magari frettolosamente; infatti per loro era prevista la possibilità che abbandonassero il postribolo, senza condizione alcuna. I Capitoli infatti consentivano a tutte le donne di abbandonare la loro attività all'interno del Monte Albano, ma ponevano loro la condizione che lo facessero in occasione di un matrimonio, che andassero a vivere lontano dal tradizionale luogo di lavoro e che da allora in poi vivessero onestamente. Soltanto alle vittime di stupro era consentito di uscire dal postribolo senza dare nessun impegno formale. Si voleva lasciare alla donna la libertà di decidere il suo rientro nella società affrontando tutte le conseguenze del pregiudizio sociale, oppure si dava per scontato che la vittima dello stupro poteva avere davanti a sé soltanto la scelta del postribolo o del convento e se abbandonava quello era per optare per quest'altro. Può sembrare grottesco, tuttavia è degno di nota che il legislatore genovese abbia lasciato alla donna una qual certa libertà di decisione. 
Il fenomeno dello stupro era divenuto nel corso del XV secolo un fenomeno allarmante che preoccupava seriamente i governanti. Può essere dunque che quella sensibilità per le vittime di quel reato nascesse da una esperienza maturata sul campo. 
Una parte di ragazze naturalmente si indirizzava subito in prima istanza alla scelta conventuale, piuttosto che al Monte Albano, compiendo tuttavia anche in questo caso una scelta priva di motivazioni profonde, ma determinata da ragioni sociali contingenti, cosicché la vita monastica era alla fine mal sopportata, può essere che le turbolenze nei monasteri e nei conventi femminili nel XV e XVI secolo dipendessero anche da queste ragioni. 
Sarebbe interessante sapere se era praticata anche la possibilità che alcune ragazze entrate in convento l'avessero poi abbandonato per salire invece al Monte Albano. 
Le donne sposate non potevano entrare nel postribolo, unica eccezione era fatta per quelle colte ad esercitare privatamente la prostituzione, ma soltanto quando il marito avesse dichiarato di non accettare la vita della moglie e di aderire all'imposizione dell'autorità che la obbligava ad entrare nel postribolo pubblico; altrimenti, se al marito stava bene che la moglie si prostituisse anche l'autorità non poteva far altro che punire la donna per adulterio. 
I Capitoli non trattano ovviamente della provenienza delle donne, dicono soltanto che non potevano essere genovesi, e che per esse si faceva riserva soltanto nei casi che abbiamo indicato. I documenti notarili possono fornirci qualche notizia: le donne all'interno del Monte Albano provenivano un po' dovunque, tuttavia non abbiamo alcuna certezza che i nomi presentati dalle donne fossero veri e non piuttosto soprannomi dal richiamo vagamente esotico. 
Accettandoli per buoni possiamo rilevare che alla fine del XIV secolo l'area di provenienza è prevalentemente nord-italiana e centro europea, mentre un secolo più tardi l'orizzonte geografico si è allargato fino a comprendere le Fiandre, la Spagna, le coste e le isole atlantiche. Anche ritenendo quei nomi soltanto indicazioni di provenienza vagamente esotiche, l'uso al passo con i tempi mostra che essi variano in funzione del variare degli orizzonti geografici entro cui si muoveva la città. 
Le ragazze ospiti del Monte Albano appartenevano ad un giro che comprendeva varie località italiane ed esse periodicamente si spostavano da una all'altra; doveva dunque esistere una qualche organizzazione di lenoni che provvedeva al trasferimento delle ragazze da un luogo all'altro dopo un certo periodo di tempo (13). 
Dal Monte Albano, come abbiamo visto, si poteva uscire solamente se la ragazza era stata vittima di stupro oppure se decideva di andare ad honeste habitare extra dictum locum, con il matrimonio dunque. Nel corso del quattrocento il matrimonio rappresentò per molte ragazze comuni non soltanto una conclusione della vita, ma per molte di esse anche uno status. Il verificarsi di questa eventualità doveva comunque aver una certa frequenza, altrimenti il legislatore non l'avrebbe contemplata. 
Non conosciamo l'intensità di questo fenomeno e neppure sappiamo se poi le donne abbiano davvero vissuto honeste. Può essere però che la particolare attenzione del legislatore per le donne coniugate e prostitute si fosse proprio originata dal verificarsi del caso di qualche donna che uscita dal Monte Albano per sposarsi avesse poi ripreso, magari saltuariamente, la professione, forse ad sustinendum onorem della vita coniugale, la qual cosa peraltro non era infrequente anche nel resto d'Europa. 


III parte 

I Capitoli furono, come dicevamo, la codificazione di norme in uso da tempo, che essi riflettono nella loro stesura: furono essi però il riflesso ultimo di quella mentalità che nei secoli precedenti aveva interpretato il postribolo comunale come una valida alternativa alla prostituzione privata e che aveva considerata l'attività della prostituzione come funzionale al mantenimento dell'ordine sociale. 
I Capitoli infatti vennero promulgati in un momento particolare della ormai lunga storia di Genova, quando si manifestavano, per un concorso di fenomeni, i segni di un rapido mutamento della mentalità collettiva e la prostituzione appariva qualcosa di disdicevole, di disturbante più che per l'ordine pubblico piuttosto per la moralità e il comune senso del pudore. In un momento in cui il disordine era palesemente all'ordine del giorno, sintomo e conseguenza insieme di una grave difficoltà politica ed economica della Repubblica, si assistette ad un progressivo emergere di istanze moraliste, che inducevano a considerare, fra l'altro, la prostituzione come un qualcosa di estraneo alla vita sociale, qualcosa che doveva essere ben controllata e soprattutto segregata, tanto che qualche anno prima di promulgare i Capitoli, i Padri del Comune avevano provveduto a cintare il Monte Albano, a chiuderlo entro uno spazio definito, nascondendolo, con le sue attività, agli occhi dei cittadini. 
Si trattava delle manifestazioni evidenti di un processo evolutivo nella mentalità, comune a tutta l'Europa, ma che tuttavia a Genova venne alla luce ben prima che altrove. Una evoluzione lenta, che soltanto fra la fine del XIV secolo e l'inizio del successivo, aveva cominciato a dare segni di una maggiore intolleranza nei confronti di una società che "andava verso la perdizione" e aveva intrapreso un'operazione finalizzata a rigenerare i costumi. I monaci e i frati del XV secolo avevano avviato una predicazione atta a sferzare i costumi, a rimproverare la rilassatezza della società urbana, a richiamare persino la Chiesa ad una maggiore sensibilità per reprimere la corruzione e particolarmente le licenze sessuali, cominciando a colpire gli esponenti dell’alto clero. 
Se da un lato i secoli XV e XVI furono un periodo di maggior autonomia della donna, di maggior considerazione della femminilità, di una rivalutazione in chiave naturalistica del corpo e anche una fase di maggior libertà sessuale, d'altro lato furono anche il periodo in cui cominciò a serpeggiare un movimento di pensiero che non tollerava gli eccessi delle corti rinascimentali e della vita licenziosa delle città e si proponeva come una forza rigeneratrice dei costumi e di moralizzazione della vita privata e pubblica. 
Più o meno in tutta Europa, dalla fine del XV secolo, le prostitute subiscono così una progressiva esclusione dal consorzio sociale, vengono chiuse in appositi spazi, segregate e definitivamente bollate come infami, contemporaneamente subiscono un tentativo di conversione finalizzata a redimerle con la prospettiva di entrare in convento o di associarle a qualche casa di lavoro. Ma evidentemente questi provvedimenti non consentirono di risolvere un così complesso problema sociale; tanto più che le licenze e gli eccessi della classe dirigente, soprattutto delle alte leve della Chiesa e financo della corte papale, non erano certamente in linea con questo progetto di "risanamento" della vita, anzi si ponevano palesemente a contraddirlo. 
Evoluzione lenta e contraddittoria, che rivela sia il maturare di una nuova concezione della moralità sia una riconsiderazione del ruolo della donna all’interno della società, colpevolizzata per essere strumento di dissoluzione morale e anche fisica, particolarmente dopo l'apparizione del morbo gallico
Le prediche della seconda metà del '400, più o meno in tutta Europa occidentale, irridono i vezzi delle dame, condannano la loro vanità, consigliano di moderare le vesti e i gioielli, prospettano alle donne una vita di mogli e madri tutta dedita al bene della famiglia. Così San Bernardino e Savonarola in Italia, così Stantonch Maillard e Menot in Francia, così gli eredi di Hus in Boemia e nelle terre dell'Impero. 
Non è dunque un caso se a metà del XV secolo si inaspriscono in Italia, in Francia e in Spagna le leggi suntuarie, che per la prima volta fanno la loro comparsa anche in Germania. 
Questa mentalità è riscontrabile, a Genova, dalle motivazioni che indussero i Padri del Comune fin dal 1445 a cintare il Monte Albano, consentendo l’entrata nel territorio del postribolo pubblico solamente attraverso una porta sorvegliata. 
Questo provvedimento era stato infatti deciso dai Padri del Comune, perché moti honestis causissi sentivano di agire pro honestate vicinorum (14). 
La preoccupazione primaria dell'autorità non era più dunque esclusivamente 
quella di evitare multa rixe; adesso era subentrata l'esigenza di tutelare l'onestà e la virtù dei cittadini. 
Se al momento in cui si istituiva il postribolo si era ritenuto che la salvaguardia della moralità pubblica era stata implicitamente ottenuta, a distanza di poco più di un secolo, si sentiva invece il bisogno di isolare anche fisicamente la città da quello spazio riservato, che evidentemente era ancora necessario, ma sul quale pesava ormai un giudizio fortemente negativo. 
Se allarghiamo un poco il campo della nostra indagine, ci accorgiamo che molti sono i riferimenti che ci conducono alla medesima analisi: nel periodo compreso fra il 1440 e il 1460 si assiste in Genova ad una rapida modificazione della mentalità, soprattutto nei confronti della moralità in generale e della sessualità in particolare, modificazione che ebbe come effetto la messa in atto di un programma di progressiva restrizione della libertà dei costumi e di persecuzione autoritaria di alcuni fenomeni fin ad allora tollerati. 
Durante quel ventennio, quando dapprima si decide di cintare il postribolo e poi di stendere in un corpo organico il regolamento per condurlo, si assiste infatti a un progressivo inasprimento delle leggi suntuarie, che si ripeteranno d'ora innanzi, con varianti più o meno restrittive, con una cadenza biennale, tendenti a proibire il lusso e la mondanità soprattutto delle donne; si assiste ad un proliferare di bandi e di grida per reprimere il rapimento di giovani fanciulle a scopo di libidine, fenomeno, che sembra ora acquisire caratteri di allarmante pericolosità sociale; si assiste poi all'emanazione dei primi provvedimenti atti a reprimere l'omosessualità maschile. 
A seguire le disposizioni di tutti quei provvedimenti, sembra che Genova, da quel momento e poi per tutta la seconda metà del XV secolo e fino all'inizio di quello seguente, sia dedita ad "ogni sorta di libidine", come testualmente cita, forse un po' enfaticamente, una grida del 1482 (15) e che la sessualità si esprima prepotentemente in molti modi diversi. 
Proliferazione della libera prostituzione sulle strade e in alcune case compiacenti, rapimenti e stupri, violenza a giovani d'ambo i sessi, omosessualità: può essere che questi fenomeni aumentassero d'intensità rispetto al passato o può essere che fosse subentrata una maggiore attenzione a quei problemi. La realtà è data molto più probabilmente dalla somma di queste due componenti: all'accresciuta tensione interna della città per motivi sia di politica cittadina, sia di politica estera, corrispose una maggiore turbolenza e una maggiore aggressività degli individui; nello stesso tempo la crisi della Repubblica che toccò il suo vertice proprio in quel ventennio, fu foriera di un ripiegamento morale e di una maggiore preoccupazione per la virtus urbis e per la virtù dei cittadini. 

Genova affronta nel ventennio dal 1440 al 1460 una somma di problemi molto gravi: la crisi finanziaria del Banco di San Giorgio, che fu prossimo al fallimento, il trauma per la caduta di Costantinopoli, inizialmente più psicologico che reale, l'ansia di perdere le colonie del Levante, che erano diventate il naturale "retroterra" della potenza mercantile della città, e poi l'annosa guerra con Alfonso d'Aragona, che rischiava di escludere Genova dalle rotte del Mediterraneo occidentale; tutto questo in un periodo in cui l'instabilità politica interna è fortissima e fa di Genova una pedina da conquistare nello scacchiere internazionale e in un momento in cui torna con inusitata virulenza ad infierire la peste. 
A distanza di secoli, guardando quegli anni e quelli successivi, sappiamo che Genova uscì sostanzialmente indenne da quella minaccia su più fronti: la crisi del Banco di San Giorgio fu superata, la caduta di Costantinopoli non rappresentò, almeno nei decenni immediatamente seguenti, la temuta crisi economico-mercantile, la guerra aragonese si risolse positivamente. Epperò mentre quegli avvenimenti incombevano sul destino della città con una singolare coincidenza, non era facile prevedere come essi effettivamente avrebbero potuto evolvere ed anzi, nell'instabilità politica che fu propria di quel periodo, era più facile immaginare soluzioni catastrofiche piuttosto che risolutive. Non è facile valutare appieno l'angoscia che quella ventennale crisi produsse nell'animo dei genovesi, che vedevano addensare così fosche nubi sul futuro della loro gloriosa Repubblica. 
Poi la peste: era tornata ad infierire nel 1450 con una violenza simile a quella di un secolo prima e il panico si impadronì della città tanto che, come ricordano gli annalisti, rimasta priva di uomini "non è più difesa"; nuova ondata nel 1458 e nel 1463, quando nuovamente, tutte le famiglie sono sconvolte e ogni attività economica ristagna, perché "la città è vacua di uomini".
Momenti di profonda paura dovettero pervadere la città durante quel fatidico ventennio, che rappresentò comunque l'inizio di un lento ed inesorabile declino dapprima politico, e poi economico; l'angoscia del futuro, che, malgrado Genova avesse sperimentato altri momenti critici nella sua storia, non si era mai manifesta in quella misura, fece perdere quella capacità di conciliare i più disparati modi di vivere, quel vitalismo, che erano stati caratteri salienti del comportamento dei genovesi fino ad allora. 
Un mercante genovese nel 1456 scriveva sconsolato al fratello dicendo di non aver nulla da raccontargli, vi erano pochissime trattative d'affari in corso e mancava persino la forza d'animo per avviarne di nuove. Pochi anni dopo, nel 1462, Flavio Biondo raccontava che a Genova vi era maggiore preoccupazione per salvare il porto e la città che non per le terre d'oltre mare, cadute nelle mani dei turchi. 
Un'angosciante sensazione di essere fatalmente condannati "per i peccati commessi" ad un crudele destino, abbandonati o rifiutati da un Dio offeso e irritato, chiudeva lo splendido medio evo della città. Fra quelle insidie internazionali e fra le interminabili lotte cittadine finiva l'età aurea e il grifo tornava al suo nido. 
Cominciava un'età di attenta programmazione delle risorse, fondata sulla riconversione dell'economia mercantile in economia finanziaria, con la necessità di compensare la perdita del prestigio politico cercando un tutore dal quale avere protezione ed anche la garanzia di non dover rinunciare ad un'ultima libertà. 
Si profilava ora quella situazione politica, che Andrea Doria avrebbe poi proficuamente realizzato, nella prima metà del secolo seguente. 
In questo quadro di preoccupazione economica e morale, si spiegano e si inquadrano le nuove leggi suntuarie, che in definitiva erano anche una proibizione alla tesaurizzazione dei capitali e un tentativo di frenare la spesa pubblica, nonché un indiretto stimolo a lasciare i capitali in circolazione per ridare fiato all'economia. 
Si spiega però anche il più accentuato rigorismo morale, frutto di un profondo turbamento, che non aveva lasciato indifferenti molte coscienze cittadine. "A causa dei nostri peccati siamo arrivati alla fine e anche Dio ci abbandona" scriveva nel 1453 il nostro mercante, forse ancora sotto il trauma della caduta di Costantinopoli. 
La crisi a diversi livelli, sommandosi alla tensione politica intestina, scatena però in città un'ondata di disordini e si spiegano in questo contesto le turbolenze a sfondo sessuale, soprattutto contro le donne di rango: si trattava probabilmente di fenomeni di rivalsa popolare contro la nobiltà e i maggiorenti della città, i quali per di più si rivelavano incapaci di tutelare adeguatamente gli interessi della collettività. 
A Genova i fenomeni di crisi contingente rendevano più acute le conseguenze di quella più vasta crisi che travagliava tutta quanta l'Europa a metà del XV secolo: uno dei più delicati periodi di confusione ideologica, anche a causa della frattura fra Chiesa come entità politica e Chiesa popolare. 

I Padri del Comune, mentre si apprestavano ad emanare i Capitoli, promulgavano una grida de moribus corrigendis, nella quale soprattutto proibivano le quotidiane fornicazioni delle serve nelle strade della città (16). 
L'effetto sperato non venne; bandi e grida continuarono a ripetere alle serve renitenti la medesima proibizione insieme alla condanna delle intemperanze dei cittadini e si arrivò, nel 1482, quando la città sembra dedita ad ogni vizio e ad ogni sorta di libidine, ad istituire un Ufficio apposito per sorvegliare graves mores civitatis (17). 
Lo sforzo primario dell'autorità sembra dirigersi verso il tentativo di eliminare la piaga della prostituzione privata. Nel 1490 si proibisce ai genovesi di tenere le meretrici nei luoghi pubblici (18); poco dopo si interveniva, a seguito delle lamentele degli abitanti per "purgare" la zona di Sant' Ambrogio dell'indecente spettacolo della prostituzione (19) e successivamente veniva emanata una nuova grida al fine di proibire alle donne di qualunque condizione esse fossero, di "battere in pubblico" (20); evidentemente alle serve si erano aggiunte altre categorie di donne. Quest'ultimo provvedimento ebbe però l'effetto di spostare la prostituzione dalla strada in qualche luogo chiuso, perché pochi mesi dopo un'altra grida se la prendeva con i bordelli privati (21) e si dovette pubblicare un proclama per rammentare ai cittadini quali fossero i confini del Monte Albano, unico luogo deputato all'esercizio del meretricio (22). Ma a tanto sforzo non corrispose, ancora una volta, altrettanto risultato: gli abitanti dei quartieri viciniori continuarono ad inviare le loro lagnanze all’autorità affinché intervenisse ad "eliminare la piaga" della prostituzione (23). 
La seconda preoccupazione si rivolge invece per reprimere il "vizio nefando"; già una prima grida del 1427, contra impuros, dà un quadro allarmante per l’autorità che vi scrive "di considerare la grande estensione del vizio…e quindi la necessità di provvedere per estirparlo" (24). 
Anche in questo caso le grida non sortiscono l'effetto sperato e una cinquantina d'anni dopo, nel 1474, esse cominciano a prevedere punizioni esemplari (25); cosicché nel 1479 un uomo reo d'aver sodomizzato un fanciullo è condannato a morte (26); forse tanta determinazione veniva dal fatto che ne era coinvolto un fanciullo. Tuttavia la punizione non sortì un effetto intimidatorio, come probabilmente ci si aspettava e nel 1486 una nuova grida è rivolta contro i sodomiti e contro chi li ospita (27); alla fine del secolo i governanti si impegnano ad un maggiore controllo minacciando le più severe sanzioni per chi fosse colto sul fatto (28). Così nell'estate del 1501 un tal Geronimo, catturato in scelere sodomitico, veniva esemplarmente giustiziato con la pena dell'abbrucciacchiamento, eseguita nella pubblica piazza del Vastato (29).
Ma neppure questa spettacolare manifestazione sortisce l'effetto sperato; la città sembra ossessivamente preoccupata per le provocazioni alla moralità, che arrivano da più parti: nel 1504 una nuova grida torna a minacciare severe punizioni tanto per le meretrici disoneste che stanno fuori del Monte Albano quanto per i sodomiti (30) e simili provvedimenti continueranno a ripetersi con singolare monotonia negli anni successivi. 
A turbare ancor di più l'opinione pubblica sono i rapimenti a scopo di libidine. I giovani, frequentemente organizzati in bande, rapiscono fanciulle anche di rango e le stuprano. Conosciamo quasi esclusivamente i casi che coinvolsero fanciulle di famiglie altolocate, tuttavia questo non esclude che oggetto di simili attenzioni da parte di quei giovani fossero anche le fanciulle del popolo; probabilmente però queste non ricorrevano alla protezione dell'autorità, cosicché non ne conosciamo la sorte (31). 
Anche a Genova, come in altre parti d'Europa, in quel periodo di gravi turbolenze, di crisi sociale e culturale, di difficoltà a ridefinire in forma istituzionalizzata la sessualità sulla base della nuova moralità emergente, esplose il grave fenomeno degli illegittimi. Il '400, gran secolo dei bastardi, come qualcuno ha voluto definirlo, si chiudeva in Genova creando non poca preoccupazione ai governanti anche per questo fenomeno (32).
I Capitoli, pur così accurati nella loro normativa tendente ad organizzare la prostituzione pubblica, regolamentavano in realtà, a quella data, un'istituzione che palesemente non realizzava più gli scopi per i quali più di un secolo prima essa era sorta: controllare le pulsioni sessuali dei cittadini scapoli e degli stranieri, garantendo l'ordine sociale e tutelando la moralità pubblica. 
Essi vennero dunque dati quando ormai era in atto quel processo di trasformazione della mentalità, che a Genova si manifestò con un certo anticipo rispetto al resto dell'Europa. Genova, in quel periodo, per una somma di cause contingenti, uscì fuori definitivamente dagli schemi di pensiero e di comportamento che erano stati tipici dei secoli basso medievali ed entrava un po' faticosamente e forse anche traumaticamente nell' "età moderna", saltando con uno stacco particolare quel periodo intermedio, che altrove, in Italia soprattutto, caratterizzò il Rinascimento
Mentre in una parte d'Europa e particolarmente in Italia, quelle contraddizioni emerse fin dall'inizio del XV secolo, conducevano da un lato ad una rinnovata tensione morale e moralizzatrice, ad opera soprattutto di pensatori laici e di esponenti del clero minore, e da un Iato a quelle libertà di comportamento che fu proprio delle corti e delle città rinascimentali, a Genova le condizioni critiche attraversate a metà del secolo, ebbero l'effetto di spingere maggiormente verso una revisione dei comportamenti sociali, in chiave autoritaria e condizionata dall'emergere di un senso di colpa diffuso, ad un controllo dei costumi dei cittadini, e per converso ad una tensione sociale che oltre a manifestare nell'instabilità politica trovava sfogo in una dinamica sessuale inconsueta. 
Accade così per esempio che nel resto d'Europa, in generale, i regolamenti tendenti a restringere la libertà d'azione delle prostitute vadano dapprima rarefacendosi per noi scomparire quasi del tutto, dimenticando talvolta anche i segni dell'esclusione, anzi favorendo un progressivo processo di integrazione della meretrix all'interno della società che durerà fino al termine del Rinascimento, quando traspariranno ovunque i segni della repressione. Si tratta ovviamente di un processo graduale non esente da contraddizioni, legate per lo più alla scadenza con cui si presentavano alcune calamità o all'apparire di questo o quel predicatore, che periodicamente spingevano verso una maggiore moralizzazione della vita. 
A Genova al contrario, si assiste ad un progressivo atteggiamento di esclusione della prostituzione dalla vita sociale, ad un inasprirsi della legislazione nei confronti delle manifestazioni della sessualità, all'emergere di una intolleranza nei confronti di fenomeni considerati prima funzionali al vivere comune o comunque espressione di una naturalità della vita, che era meno condannabile delle trasgressioni della vita dello spirito. 
Accade così ancora che, mentre nel resto dell'Europa, l'omosessualità maschile godrà di una certa tolleranza, più o meno esplicita fino al cinquecento inoltrato, a Genova invece comincia già dalla metà del XV secolo una manovra atta a reprimerla, anche ricorrendo alle "maniere forti". 

I Capitoli furono allora una delle prime manifestazioni di quel processo di intolleranza e di repressione della sessualità e, in modo generico, della vita mondana, soprattutto delle donne. 
Il bisogno di codificare in un corpo giuridico organico la normativa del postribolo, proprio in quel momento, lascia intravvedere uno sviluppo della mentalità, che precedentemente aveva accettato la prostituzione come fenomeno necessario e funzionale alla dinamica sociale e che ora, invece, si ripiegava verso una più rigorosa concezione della morale pubblica e privata. Alla fine i Capitoli furono la macroscopica manifestazione di un processo tendente a separare nettamente le donne perdute dalle altre, per le quali tuttavia si programmavano una serie di interventi finalizzati a privarle, poco a poco, della loro autonomia mondana. 
Questo processo rivelatore di una nuova attenzione nei confronti della sessualità e della donna, finì però evidentemente per esasperare quelle tensioni, che già serpeggiavano all'interno della società, così a fronte del processo di repressione si levarono i disordini, politici e sociali, si esibì un più aggressivo e sfacciato modo di vivere la sessualità, anche nelle forme della diversità
I Capitoli furono l'epilogo di un'epoca che tramontava. 
La prostituzione doveva essere tenuta segregata pro honestate vicinorum, ma lo sforzo del legislatore si scontrava con un fenomeno incontrollabile e più si voleva nascondere e più quella appariva sulla strada ad opera di singoli individui. La prostituzione privata, in un regime di alto controllo di quella pubblica, rispondeva meglio anche alle esigenze di quanti avevano timore di essere facilmente identificati come utenti del postribolo pubblico. 
La prostituzione doveva essere segregata perché piaga infamante, di cui però la società ha ancora bisogno, ma che insieme ad altri mali alberganti nella società, doveva prima o poi scomparire. Vi si sarebbe dovuto giungere alla fine di un'operazione di risanamento morale auspicata da tanti, ma attuata da pochi, anche perché la Chiesa era in quel periodo troppo distratta e poco sensibile alle nuove esigenze di moralità. 
La prostituzione inoltre era un problema di più vasta portata, che insieme alle altre forme in cui si esprime la sessualità, non poteva essere affrontata solamente da una legislazione, fondata per di più su così contrastanti esigenze.
Genova, prima di altre città, sembra farsi portatrice di quelle tensioni di riforma sociale e morale, proprie di quell'età, con tutte le contraddizioni però di un periodo di transizione. 
Certamente però questo precedere i tempi nuovi, finì per nuocere a Genova, impedendo che emergessero fino in fondo le contraddizioni dell'età rinascimentale, così qui mancheranno i segni vistosi di quell'età come mancheranno le cortigiane. 
La città, sotto i segni negativi della metà del '400, si avviava a quel ripiegamento che altrove si ebbe soltanto un secolo dopo; dominata dalla esigenza di una maggiore austerità dei costumi e da una riconsiderazione della natura umana, si privava di quel vitalismo dirompente tipico dell'età rinascimentale, ma si preparava ad affrontare i nuovi schemi di pensiero dell'età moderna, che faceva rapidamente propri trasferendoli in un comportamento fondato sull'economia del lavoro, che ha qualcosa di calvinista. 

L'atteggiamento di Genova si pone dunque in termini anacronici rispetto alle altre città: l'istituzione del bordello pubblico precede di un bel torno d'anni le analoghe istituzioni e la chiusura entro un recinto, nonché una maggiore rigorosità morale, precedono di almeno mezzo secolo l'affermarsi delle medesime manifestazioni nel resto d'Europa. 
Se consideriamo che l'immagine della prostituta è una variabile dell'immagine della donna e che nasce da una complessa serie di valutazioni morali e sociali relative alla dinamica dei comportamenti sessuali, il caso di Genova rivela che questa città correva in anticipo sui tempi, maturando prima atteggiamenti e mentalità che divennero poi comuni al resto dell'Europa. 
In quel ventennio a metà del XV secolo dovettero qui emergere le antiche paure delle città distrutte da Dio per i loro peccati: così quella città che aveva lasciato alle sue donne una libertà d'azione anche imprenditoriale non comune altrove, ora toglieva loro poco per volta ogni spazio; la donna doveva rientrare nei ranghi di madre, di apostolo del focolare e le ragazze abbandonate non potevano più avere come prospettiva di vita la strada del postribolo. La società andava risanata e i più umili protetti. Il legislatore vi metteva da parte sua la normativa di legge, ma a lui doveva affiancarsi l'opera dei singoli: Santa Caterina e Ettore Vernazza con la loro attività filantropica sono i primi rappresentanti di questa sensibilità emergente e di questa nuova mentalità. 


1) La prostituzione in Genova, nel periodo bassomedievale, era già stata oggetto di una rapida analisi alla fine del secolo scorso, da T. BELGRANO, Della vita privata dei genovesi, Genova, 1875. L'interesse dei medievisti per questo aspetto della società sembra essersi risvegliato soltanto in questi ultimi anni; infatti alcuni studi del passato hanno guardato il problema o da un punto di vista anedottico o con una qual certa indulgenza moraleggiante. Una rigorosa analisi della prostituzione nel medioevo, affrontata da un punto di vista sociale, che però non trascura l'indagine dell'evoluzione della mentalità, si offre con il testo di J. ROSSIAUD, La prostituzione del medioevo, Milano, 1984. A questo lavoro mi sono in gran parte ispirato per indagare il fenomeno a Genova e soprattutto mi è stato prezioso per cogliere quelle variabili che sembrano essere invece proprie di Genova e non della generalità delle altre città. 
I Capitoli del postribolo del 1459 sono stati pubblicati in Regulae patrum communis Janue seu leges constitutiones et decreta pro dicto illustrissimo magistrato, 1459-1678, a cura di C. De Simoni, Genova, 1886. Un sommario commento ai Capitoli venne proposto da STELLA NERA (G. Ansaldo), I Capitoli del Monte Albano - Le norme sul meretricio del 1459, in Raccoglitore Ligure, 1933, n. 4. 
2) Cfr. Rossiaud, op. cit., passim. 
3) Cfr. A.S.G., Notaio Ugolino de Scalpa, atto del 5.9.1286 e atto del 29.10.1286, Reg. II.
4) Le prime notizie sono di fonte indiretta, appaiono infatti nella miscellanea POCH, vol. VII, conservata alla Civica Biblioteca Berio, nonché nelle cosiddette carte Ageno, e in alcuni appunti di M. Staglieno, tutti conservati alla Civica Biblioteca Berio. Il primo documento che ne parli è un rogito del notaio Tomaso Casanova, del 13.6.1339, cfr. A.S.G.,detto notaio, cart. VII. Per quanto riguarda la distruzione del postribolo per la nuova sistemazione urbanistica cfr. E. POLEGGI, Strada Nuova - Una lottizzazione del '500 a Genova, Genova, 1968. 
5) Cfr. Rossiaud, op. cit., pag. 9. 
6) Atto del notaio Tomaso Casanova, cit. 
7) Le norme via via emanate sono presenti nelle varie raccolte delle leggi genovesi. In particolare però va ricordato che una parziale stesura dei capitoli, contenente i primi cinque dei ventitré del 1459 si trova al termine di una serie di disposizioni dell'Opera portus et moduli, emanate nel 1440. Cfr. A.S.G., Diversorum Registri, 1440.
8) I confini sono ricavabili sia dall'atto che dispose di recintare il Monte Albano, cfr. Diversorum Registri, 1.9.1445; sia da un bando dell'Ufficio di Virtù che rammentava quale fosse lo spazio entro il quale il meretricio era lecito, cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, filza 3.5.1506. In pratica il Monte Albano si estendeva dai quattro canti di San Francesco, costeggiava la Maddalena fino ai Macelli di Soziglia, risalendo poi verso le Fontane Marose, a nord confinava con la collina del Castelletto. 
9) A metà del XV sec. la casipola più nota sembra essere quella chiamata "Stella", dove, fra l’altro, si recavano a rogare i notai Cristoforo Sisto e Paolo De Ferrari. 
10) Nel 1469, ad esempio, Giana Negra, insieme a Cola di Calabria, entrambi rofiani venali, acquistano la gestione del Monte Albano, da Bastiano Romeo, che l'aveva vinta in appalto, per due anni, nel 1468. Cfr. A.S.G., notaio Paolo De Ferrari, filza 1, atto del 31.8.1469. 
Nel 1471 invece Cola di Napoli e Antonio Congelutio formano una società per concorrere con 125 ducati d'oro all'acquisto della gabella del Monte Albano, "essendo scaduto l'appalto di Bastiano Romeno", cfr. A.S.G., notaio Paolo De Ferrari, filza 1, atto del 15.2.1471. 
11) Dalla documentazione esaminata risulta che le donne operanti nel bordello genovese appartenevano ad un giro che le conduceva anche a Pisa, Lucca, Firenze, Milano, Savona, ed "eventualmente in altre città". Cfr. particolarmente gli atti del notaio Paolo De Ferrari. 
12) Negli atti del notaio Quirico de Nea, compresi fra il 1367 e il 1380, vi compaiono numerose meretrici che confessano i loro debiti contratti nei confronti di Giovanni de Pontecurono e di Antonio de Castronovo, che figurano come proprietari delle case da loro abitate, vale a dire erano i proprietari delle "casipole" presso le quali le donne operavano. Quasi un secolo dopo la stessa situazione è documentata dai rogiti di Cristoforo Sisto e Paolo De Ferrari: ad esempio Arechina de Fiandre è debitrice di somme nei confronti di Basilio Lavagnino e per questo lavora per lui nel postribolo; atto del 21.4.1451. Canaria de Lanzaroto, dovendo quindici soldi a Giovanna da Novara, promette di lavorare per lei nel bordello pubblico per nove mesi; atto del 26.7.1469; dello stesso tenore sono gli atti del 2.12.1469; del 23.12.1470; del 25.12.1470; del 26.9.1471. 
13) Negli atti del notaio Quirico de Nea i nomi delle ragazze sono: Margarita de Bononia, Cathalina Thodesca, Agnesia de Alamania, Ianeta de Paris, Cristina de Burges, Agnesia de Placentia, Antonia de Papia; all'inizio del nuovo secolo troviamo un singolare testamento di Barbara de Boemia, foemina publica, che sentendo la morte sopraggiungere chiede di essere seppellita apud ecclesia Marie Magdalene, che era la chiesa parrocchiale del Monte Albano. I nomi che appaiono nella documentazione dei notai Cristoforo Sisto e Paolo De Ferrari sono Catarina Canaria, altrove chiamata Canaria de Lanzaroto, Giovanna da Novara, Giannina Palanza de Monfort, Gianna Negra, Beatrice de Vidalla da Valencia, Catarina de Napoli, Catarina Balsana, altrove chiamata Balsana de Brigia, Johannina de Aste, Arechina de Fiandra. 
14) Cfr. A.S.G., Diversorum Registri, atto del 1.9.1445. 
15) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, atto del 22.12.1482. 
16) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, atto del 15.3.1459. 
17) Un panorama ancora valido del deteriorarsi del clima sociale è ricavabile dalla descrizione di T. BELGRANO, op. cit., nei capitoli riguardanti la prostituzione e l'Ufficio della virtù. 
18) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, 1490-91, atto del 11.3.1491 e ribadito il 23.3.1491. 
19) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, filza 64, atto del 5.4.1501 e un anno dopo si ripete la stessa situazione, cfr. Politicorum, mazzo 3, atto del 3.3.1502, ribadito il 1.4.1502. 
20) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, filza 65, atto del 27.4.1505. 
21) Ibidem, atto del 5.6.1505. 
22) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, filza 66, atto del 23.5.1506. 
23) Oltre le già accennate proteste degli abitanti del quartiere di Sant'Ambrogio si levarono anche quelle degli abitanti di Soziglia, i quali in particolare si lamentarono che "nei portici delle loro case si radunano donne rendendo infame quel luogo", cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, atto del 6.6.1508. Successivamente si levarono le proteste del quartiere di Sant'Andrea che spinsero i padri del Comune a porre sotto sequestro "certe abitazioni a cagione delle indecenze che vi si commettono", cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, filza 70, atto del 9.7.1511. 
24) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, atto del 27.1.1427. 
25) Ibidem, atto del 12.1.1474. 
26) Ibidem. Dell'episodio se ne occupò anche il Giustiniani nei suoi Annali. Cfr. G. PESCE, Notizie di medicina negli annali del Giustiniani, in Agostino Giustiniani annalista genovese ed i suoi tempi, Genova, 1984.
27) Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, filza 20, atto del 20.2.1486. 
28) Cfr. A.S.G., Diversorum Registri, atto del 6.5.1499. 
29) Ibidem, atto del 13.8.1501. 
30) Ibidem, atto del 15.3.1504. 
31) A titolo puramente esemplificativo si considerino alcune grida emanate in occasione di rapimenti di fanciulle di un certo rango o alcuni provvedimenti emanati dall'autorità:
- Proclama per l'arresto di Peregrino de Vaixo, che ha rapito la schiava dalla casa di Gian Ludovico Fieschi, cfr. A.S.G., Litterarum, 25.4.1447; 
- Grida Contra raptores fanciullarum, cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, 11.12.1460. 
- Bando per la costituzione di uno speciale magistrato al fine di giudicare e condannare i rapitori delle fanciulle, emanato al seguito del rapimento della figlia del quondam Antonii Lomellini, cfr. A.S.G., Litterarum, 16.12.1460. 
- Intervento dell'autorità contro i malfattori rapitori di schiave, cfr. A.S.G., Litterarum, 1475. 
- Proclama contro i malfattori rei di stupro di una fanciulla. Uno di quei malfattori venne catturato e fu giustiziato "esemplarmente", la qual cosa induce a ritenere che il fenomeno stesse assumendo livelli particolarmente preoccupanti, cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, atto del 21.12.1481. 
- Lettere patenti di Battista di Campofregoso per la creazione di un apposito magistrato onde procedere contro il nobile Paolo Doria rapitore e stupratore della figlia tredicenne di un nobile di cui si tace il nome, cfr. A.S.G., Litterarum, atto del 17.6.1483. 
È interessante rilevare che quando si venne a conoscere che la fanciulla era solita andare in giro per la città, eccessivamente agghindata e imbellettata, si diede ordine di arrestare anche lei. 
32) Illuminante a questo proposito è l'esposto degli amministratori dell'Ospedale di Pamattone, i quali lamentavano che il gran numero di trovatelli portati colà era di gran spesa e continuando così non avrebbero più potuto reggere e pertanto chiedevano ai Padri del Comune che fosse frenata la licenza di mandar fanciulli all'Ospedale. A seguito di questo esposto si deliberò che chi avesse in casa schiave e serve gravide doveva dichiararlo e che non si potesse più mandare bambini all'Ospedale; cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, esposto del 22.11.1481.
Anche il Giustiniani nei suoi annali, a proposito di Pamattone, dice che "al presente si contiene più di cento fanciulle vergini, tutte illegittime, che sono state abbandonate dai loro parenti…". Inizialmente queste fanciulle uscivano dall’Ospedale per diventare fantesche nelle case, ma invece molte di esse si davano alla "malavita e di lì a poco tornavano per abbandonare figli loro", così lamentano ancora gli amministratori dell’Ospedale nel 1515, e chiedono pertanto che le fanciulle non possano uscire se non per maritarsi o per monacarsi, cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, 12.2.1515. E infatti il Giustiniani nei suoi Annali prosegue dicendo che "…ai tempi suoi…le fanciulle non hanno commercio e colloquio con uomo alcuno, e solamente parlano al loro confessore al quale se dicono volersi maritare, sono subito compiaciute e provveduto a loro di competente dote".
Il problema degli illegittimi fu comunque talmente grave all’inizio del '500 che si arrivò persino a stabilire che contadini e manenti dai 16 ai 60 anni potessero entrare e servire in città solamente se davano una cauzione di 25 fiorini di non commettere simile delitto, ovvero di ingravidare serve e schiave; ma tale decreto non fu ovviamente rispettato e il problema rimase vivo, anche perché, molto probabilmente, responsabili di simili "delitti" non erano soltanto i contadini. Cfr. A.S.G., Diversorum Cancelleriae, atto del 5.11.1510, poi del 28.12.1510; e poi ancora 30.10.1511, quando si dà facoltà agli amministratori della città di stabilire pene gravi per chiunque ardisca lasciare bambini all’Ospedale.

Pubblicato in "Studi genuensi" or son trentanni.

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