martedì 28 gennaio 2020

CRISI e DESTINO


Intervento tenuto giovedì 16 gennaio 2020, presso lo Studio Novelli, Genova.

1.
ere r«Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.»
La più bella metafora di una crisi di mezza età o di un’età di mezzo o un’età in mezzo a…; che la crisi si apra nel mezzo del cammin di nostra vita, tradizionalmente fissata nei 35 anni di vita, lo ricorda Dante nel Convivio…lo punto sommo di questo arco [della vita terrena] ne li più credo [sia] tra il trentesimo e il quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno[1]; e rimanda a riferimenti antichissimi, e forse il più antico al Salmo XC…I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni;//o, per i più forti, a ottant’anni;//e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e vanità;//perché passa presto, e noi ce ne voliam via. Dante ci racconta la sua crisi, crisi dell’individuo, che eleggo per addentrarci in questo argomento, a metafora della crisi che ogni individuo affronta quando giunge al momento di svolta della cosiddetta mezza età, e inevitabilmente si fanno i conti con la vita; teniamo conto che nel nostro tempo il prolungamento della durata della vita inevitabilmente sposta poco più avanti la metà del cammin.
Cammin, dice Dante cogliendo ancora una volta dalla Bibbia, questa volta dal Nuovo Testamento, da Paolo, che aveva sostenuto…dum sumus in corpore peregrinamur a Domino, per fidem enim ambulamus et non per speciem[2], esortando a comprendere il senso del camminare nella fede; Dante aveva già esposto questo concetto nel Convivio[3], dove aveva chiarito anche il senso di selva oscura, strada erronea, il luogo-tempo in cui l’anima si perde, e si entra così in una specie si sonno-veglia, che consente un di più di percezione e si prende consapevolezza che si sono smarriti i contorni del reale, che le coordinate esistenziali si sono confuse; per il momento si sa soltanto che si è in una crisi, dalla quale occorre uscirne, si deve affrontare un itinerarium mentis, se si può, se si riesce a individuare la via d’uscita, forse da soli non sarà possibile, forse ci vorrà un aiuto esterno, un aiutante. Dante fa la sua proposta etica e teologica, trascendente, guardando alla via del Bene, al Bonum che è nell’ordine cosmico di Dio: mettersi su un altro cammino è affrontare l’itinerarium mentis in Deum[4] secondo lindicazione di Bonaventura da Bagnoregio[5]. Da una crisi non se ne esce, se non con un itinerarium mentis, se si rifiuta la via della trascendenza si può scegliere di viaggiare sul divano dello psicanalista, piuttosto che su quello del confessore, oppure si può sedere con il partner davanti al consulente di coppia, o, visto che si è sempre più dediti alla frammentazione specialistica, sedersi davanti al consulente più opportuno, rebus sic stantibus. Torno ancora sulla metafora dantesca, perché ha in sé elementi di grande utilità, innanzi tutto perché la crisi non è esplosa all’improvviso, infatti ci si ri-trova ovvero si è giunti: alle spalle del punto di crisi c’è stato un percorso, che si può non aver valutato, persino non averlo percepito, per cui può apparire all’improvviso che la diritta via è smarrita, ma non ci si è giunti per caso, come Dante stesso afferma…Io non so ben ridir com’ì v’intrai,//tant’era pien di sonno a quel punto//che la verace via abbandonai[6].


Ci si arriva alla crisi, si può non sapere quando si sia intrapreso il percorso che lì ci ha condotto, al punto di rottura, ma quando lì si è giunti, è necessario avere la consapevolezza che è stato compiuto un percorso; non a tutti è data l’onestà intellettuale di Dante, tanti rifiutano di essere stati su un percorso che esita in una crisi, meglio infatti immaginare che il destino avverso ci abbia spinto; il “fuori da noi” ci risparmia l’analisi delle responsabilità; il destino, anche chi lo rifiuta concettualmente, infine lo invoca pur di non assumersi responsabilità, così come, ugualmente, si tende a pensare la malattia come qualcosa che viene da fuori…mi sono preso il raffreddore, mi hanno attaccato l’influenza[7].
Pien di sonno, dice Dante. Il sonno[8], sonno della ragione, sonno dei sentimenti, aridità, incoscienza, irresponsabilità: forse non ha tanto senso comprenderne la componente o coglierne la sfumatura; indubbio però che ad una crisi ci si arriva; tanti immaginano, perché vorrebbero che così fosse, che la crisi arrivi da fuori, irrompa improvvisamente, ma non è così, neppure quando si aprisse il pavimento sotto di noi: c’è una storia prima, di cedimenti, di trascuratezza, di mala costruzione, di sottovalutazione del carico, anche qui non importa comprendere la componente, è importante cogliere che la crisi è un’emergenza, nel più preciso senso del temine latino e-mergo far risalire ciò che è affondato, sommerso. E, se proprio volessimo farci una domanda dovremmo chiederci come mai proprio ora che siamo qui, il pavimento cede, e potremmo scoprire che a questo appuntamento ci eravamo preparati[9]. Questo percorso, che conduce ad una crisi, è stato già scritto; potremmo forse interrogarci su come è stato scritto, su chi l’ha scritto, oppure chiederci con chi? Tante “caccole” le lasciamo distrattamente noi, nei nostri percorsi, talvolta privi della consapevolezza che anche un semplice scarto di un grado dal percorso, proiettato in un tempo lungo, rappresenta uno spostamento dalla meta iniziale, anche di non poco rilievo; su alcuni aspetti della nostra esistenza, c’è qualcosa che non sempre sembra totalmente dipendere da noi, almeno non nella misura dell’umana razionalità, o piuttosto non così evidente ad una prima indagine. Sorgono domande: avrebbe avuto Dante la medesima capacità di rendere universale la sua crisi, attraverso quel monumento di opera, che è la Divina Commedia, nascendo in Irlanda, piuttosto che in Boemia, e non in quel pullulare di cultura e di idee che era la Firenze del suo tempo? O se fosse vissuto, poco dopo, a cavallo della grande peste del 1348, il suo afflato mistico sarebbe stato uguale, o non si sarebbe posto quei dolenti interrogativi che ritroveremo in Petrarca e in Boccaccio? Domande, forse peregrine, alle quali non so dare risposta, se non che un imprescindibile punto fermo nel cammin di ognuno di noi, è da dove parte il cammin: la data cronica e topica della nascita è un punto chiave nel destino di ogni essere umano; poi, per essere pignoli, potremmo aggiungere che anche i geni ereditati da padre e madre, e almeno dai quattro nonni, per non allargarci troppo, qualcosa ci mettono, ma quel metterci degli avi si risolve nell’atto del concepimento e si manifesta nel momento della nascita, tutto il resto è conseguenza. Quel tempo e quel luogo sono imprescindibili coordinate che segnano la curva della vita, secondo un preciso percorso, dove ad ognuno è dato di compiere solo una parte, neppur così rilevante, di autonoma decisione.

2.
La città di Tebe è ammorbata da un miasma fetido, muoiono uomini e animali: si è aperta una crisi collettiva; così la tragedia di Eschilo prende le mosse, quando il popolo si rivolge ad Edipo, il valoroso re, che ha sconfitto la Sfinge, perché trovi il rimedio a tanto male; in realtà siamo all’epilogo di varie storie intrecciate fra loro[10]: il tragico, il nucleo della crisi, si è avviato molti anni prima, quando Laio, inseguendo un vaticinio, temendo di morire per mano del suo figlio appena nato, lo affida ad un servo che lo uccida lontano dalla città; il servo, preda di compassione, pur avendo accettato l’incarico, non uccide il bambino, ma lo affida ad un pastore, che lo porta in un’altra città, a Corinto, dove il Re lo vede e lo tiene per sé, e poiché il suo è matrimonio sterile, lo adotta come figlio, il quale crescendo, suggestionato a sua volta da un vaticinio che gli predice che ucciderà suo padre e giacerà con sua madre, fugge da casa, nel timore di uccidere il proprio amato padre e di commettere incesto, ma sulla via della fuga, ad un trivio, incontra il vero padre Laio, che si sta dirigendo a Delfi, per consultare l’oracolo, che ovviamente Edipo non riconosce, e con il quale ha uno scontro cosicché finisce per ucciderlo, assecondando almeno una parte del vaticinio; giunto a Tebe e risolto l’enigma della Sfinge, il popolo lo acclama e lo fa sposare con la regina Giocasta, sua ignota madre, per diventare re. La crisi aperta con la pestilenza è appunto causata dall’assassino di Laio, che impunito è in città, così l’indovino cieco Tiresia si esprime.


Evidente il ruolo di elementi non facilmente ascrivibili alla sola consapevolezza, riportabili alla ineluttabilità del destino, se vogliamo. Potevano sfuggire Laio ed Edipo alla loro sorte? L’eccesso di credulità li rende facili assecondatori di un destino, che sembra più una necessità, Ananke, dalla quale non sfuggono neppure gli dei? Che loro siano pur stati facilmente plagiabili, perché ciò si riverbera sull’intera città e comporta una crisi collettiva? Non sarà forse che quel popolo non aveva valutato abbastanza quel giovane, subitamente promosso re per aver risolto il quesito della Sfinge, senza altra domanda porgli, senza altra inchiesta? E, come mai gli dei così tanto prodighi di vaticinii attraverso i loro portavoce, in quell’occasione non furono inchiestati e non fecero sentire la loro voce in altro modo? Chi mai fosse Edipo, da dove venisse? Nulla, accolto e spedito dritto nel letto della regina (sua madre) vedova, per sacralizzarne l’elezione. E la regina, una domanda su questo giovane, che ha l’età che avrebbe avuto suo figlio se suo marito non l’avesse mandato a morte, non se la pone? Accetta di essere strumento di una volontà collettiva? Sembra che nessuno si domandi niente, solo accettazione remissiva ai vaticini, alle profezie, a una sorta di delirio collettivo, e il destino compie il suo rito, e fa il suo corso; se Edipo per mano del servo fosse stato ucciso non avremmo avuto questo percorso, che di fatto è governato dalla mano misericordiosa del servo stesso che compassionevole non lo uccide, ma lo risparmia; il servo sarebbe allora la necessaria pedina del destino che voleva che la tragedia così si srotolasse? Chi crede ai vaticinii e poche domande si pone, chi disubbidisce al comando, chi assurge a gloria immediata per aver risolto un quesito, rapidi matrimoni a dare quel tocco di sacralità che sembra essere quasi necessario per un di più di consenso popolare, quante altre storie si sono scritte con questi elementi, quanta realtà, quanti romanzi, quanti spettacoli, quanta politica: se cambiamo i nomi e ci mettiamo “influncer”, “leader”, voltagabbana, matrimoni d’interesse, ecc, il gioco è ancora quello, qualcuno lo vuole chiamare destino, qualcun altro si stupisce per le crisi che ne conseguono.
Potrebbe sembrare strano che nessuno si faccia una domanda prima, eppure nella mia esperienza di studio, posso dire che sono tante le situazioni di crisi, giunte come sembrerebbe all’improvviso, e che invece hanno radici lontane, talvolta evidenti, eppure si è restii a porsi alcune domande, talvolta ovvie. Albert Camus, descrivendo un’altra pestilenza[11], farà dire ad un personaggio chiave del suo romanzo, in una sorta di confessione…diciamo per semplificare che io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia. Basti dire che io sono come tutti quanti; ma ci sono persone che non lo sanno, o che si trovano bene in tale stato e persone che lo sanno e vorrebbero uscirne…
Spesso dietro una crisi, che apparentemente scoppia in un certo momento, c’è soltanto la banalità del male, come scriverà icasticamente Hannah Arendt[12]: l’aver lasciato che le cose procedessero senza nessuna riflessione, l’aver ciecamente assolto un ruolo da fedeli esecutori, essere stati assecondatori di un destino, inerti pedine di un gioco, nel quale è possibile esserci, talvolta sapendo di esserci, ma talvolta ignari, o ancor peggio indifferenti  della posta del gioco stesso. Ogni crisi è conseguenza di un destino, e a sua volta apre un destino.

3.
Il termine crisi, come ebbe a scrivere Barbara Spinelli nel 2009, è uno dei più tentacolari…più che una parola, è un albero dai rami incessanti[13]. Pensiamo solo ad alcuni ambiti di utilizzo: crisi economica, crisi di governo, crisi di coppia, crisi sociale, crisi politica, essere in crisi, vivere una crisi, e chi più ne ha più ne metta. Occorre grande prudenza dunque per arrampicarsi su questi rami. Per non parlare dell’altra parola destino, che ha avuto negli ultimi secoli un vero e proprio destino, per giocare con le parole: attendere il proprio destino, essere giunti a destinazione, un destino crudele, un destino incerto, sottostare al destino, era destinato a…, e avanti fino alla fine del nostro tempo. Due termini particolarmente complicati, più che ancora che complessi. Vediamo intanto come si sono addensati di senso, a partire dalla loro origine. Il termine Crisi deriva, nell’accezione comune, dal verbo greco Krino, dai vari significati di scelta, separare, discernere, valutare, giudicare. In origine si ritiene che indicasse nel mondo agricolo della Grecia la fase di separazione del grano dalla pula, non solo discernere, ma anche interpretare. In sé il nome conteneva già la connotazione di indicare una scelta, si separa qualcosa da qualcos’altro, attraverso un discernimento, un intervento che è una forma del giudicare. Nel vocabolario della lingua greca[14], attraverso lo studio della classicità greca, si può individuare come il termine fosse transitato ad indicare non solo giudicare, ma anche capacità di giudicare, non solo discernimento ma anche interpretazione soprattutto di sogni, e infine assumendo una serie di valori afferenti al contesto giuridico, ovvero processo, accusa, condanna. Nella lingua latina, crisis, transita prevalentemente tanto come decisione da prendere, quanto come momento chiave in cui si manifesta una malattia, ma anche con il significato sia di giudizio critico sia di momento critico[15]. Torniamo ancora un momento in Grecia, dove Ippocrate di Coo, nel V secolo a.C. chiama crisis, quel momento nell’evoluzione della malattia in cui si decide: o si va verso la ripresa e la guarigione o si va verso il fatale aggravamento; momento di svolta, e mi soffermo su si decide, traduzione forse non del tutto precisa, ma chiara comunque nel senso.


Si decide, e la domanda sorge spontanea: Chi decide? A tutt’oggi, in tante difficilissime situazioni critiche di salute, a decidere per una svolta in una delle due opzioni, non si sa bene chi sia: il medico, la forza del paziente, o qualcosa di imponderabile che ancora ci sfugge? E ancora mi soffermo su quel fatale, che tanto rimanda al Fato, pur usato così tante volte inconsapevolmente nel suo significato primario: inseguimento fatale, fatale errore, inganno fatale, attrazione fatale, e infine potremmo pensare a quanti hanno conosciuto une femme fatale, che solitamente indica una conoscenza rovinosa. In quel fatale, c’è dunque qualcosa che indica che c’è stato una svolta nel corso degli eventi. Potremmo parlare di una svolta del destino? È forse il Destino che decide? Oggi noi usiamo quasi in modo interscambiabile i due termini, fato e destino, che in realtà differivano originariamente in quanto Fato esprimeva quasi una sottomissione ad una necessità talvolta ignota, che persino potrebbe apparire casuale, ma che organizza invece una successione di eventi immodificabili; destino appartiene alle possibilità umane, secondo il detto latino faber est suae quisque fortunae, che lascia all’uomo libertà di decisione e di scelta, e che diviene quindi responsabile delle sue azioni.
Allora proviamo a dare una linea di indirizzo, che nasce proprio dall’esigenza di riportare i termini ad una correlazione di senso, a partire dalla domanda se davvero possono stare insieme. La crisi apre una necessaria scelta, molti sostengono che questa scelta offra un’opportunità[16]. La offre sempre? Mi chiedo se in una crisi che nasca da un terremoto, che rade a zero un intero paese, l’opportunità riposi sull’eventuale ricostruzione o sulla necessaria migrazione verso un altro paese? Potrebbe essere, ma mi viene difficile accettarlo. Essere vittime di un attentato che toglie l’uso delle gambe, quale opportunità offrirebbe? E potremmo, spostandoci su un'altra prospettiva, domandarci tuttavia come mai abitavamo in quel paese o città al momento del terremoto oppure come mai pur abitando in quel paese o in quella città, in quel momento del terremoto, ci trovavamo da un’altra parte del mondo, quale è dunque l’opportunità, era destino che non ci fossimo? Nell’attentato, l’opportunità è saturata dall’essere sopravvissuti, pur divenuti monchi?
La psicologia oggi intende il termine crisi come uno sconvolgimento dell’assetto interiore di un individuo, dal quale se ne può uscire o non, si ritiene che ciò possa dipendere dalla presa di coscienza, che induce ad una modifica dello stile di vita, delle scelte da operare; ma in base a cosa si possono attuare queste scelte? La presa di coscienza può farci vedere una prospettiva di vita, che tuttavia non siamo in grado di sostenere economicamente o socialmente, o comunque inattuabile senza un necessario coinvolgimento di altri, ad esempio stabilire che il rapporto di coppia non sia più idoneo, nel rimetterlo in discussione avvia una procedura che coinvolge un’altra persona, ovvero si apre una crisi nell’altro, per non parlare di quando vengono coinvolti i figli, aprendo in loro una crisi di portata non sempre facilmente calcolabile, e alla quale loro sono spesso impotenti non solo a trovare una via d’uscita, ma a comprenderne il senso. Lasciamo da parte la crisi dell’individuo, che diventa consapevole della necessità di una svolta, ma quelli che vengono coinvolti come li consideriamo? Il destino ha aperto una serie di conseguenze per loro, il destino dunque è cieco, irrispettoso, o necessario? Ovvero era necessario che anche loro fossero chiamati ad una loro presa di coscienza? Eschilo fa dire a Prometeo…il destino che il fato mi ha assegnato devo sopportare meglio che posso; so bene infatti che nessuno contro necessità, contro la sua forza, può combattere e vincere[17].

4.
La sociologia, la politica, l’economia parlano di crisi collettive: la crisi finanziaria coinvolge tutti gli azionisti di una Banca, o gli investitori in borsa, ma la dizione è una superfetazione linguistica, infatti la crisi collettiva altro non è che la somma di tante crisi individuali, attivate dal medesimo fenomeno, come il terremoto, e alla stessa stregua quello che conta è come  i singoli vengano convolti, secondo la loro condizione, che è precedente alla crisi stessa, potremmo dire secondo quanto il destino per loro aveva già scritto? Ovvero ognuno arriva alla crisi, portatore di una differente storia…la sentenza non viene di colpo. È il processo che la trasforma a poco a poco in sentenza…ebbe a dire Franz Kafka[18].
E così torniamo a più d’uno degli ambiti di significato del termine crisi: c’è un percorso, una trama sulla quale ogni individuo si muove e che può impattare in una crisi, qualunque ne sia la natura, una crisi che ha già, in qualche modo, previste le soluzioni, previste o forse meglio dire predisposte: occorre operare delle scelte o accettare, c’è margine per una regia o non c’è altro che accettare o persino subire, spesso la risposta non è soltanto nella crisi, ma persino nel percorso che alla crisi ha condotto.
Quello che può apparire ineluttabile, spesso lo è diventato, a piccoli passi, un giorno dopo l’altro. Nella mia pratica professionale mi è capitato di ascoltare persone che recriminano di aver compiuto una scelta di studi, che sapevano non interessante per loro, ma fatta per stare insieme ad alcuni compagni di scuola (paura di affrontare la vita, bisogno di certezza) o per assecondare aspettative dei genitori (bisogno di consenso, ricerca di amore), e alla domanda se avrebbero potuto scegliere diversamente, la riposta era affermativa, ma ne fu fatta un’altra, e quella scelta ne ha prodotto a cascata altre e, alla fine, quando la crisi arriva, non è più così facile rimettere in gioco il proprio destino. Scoprirsi da un’altra parte rispetto a dove avremmo voluto essere, spesso non offre nessuna alternativa all’accettare di essere dove si è giunti, piaccia o non. Alla stessa stregua frequentemente la crisi matrimoniale è fatta risalire, con lucidità ammirevole ad una qualche motivazione remota, si sapeva già prima dell’unione civile o religiosa che sia stata, che non era quello che si avrebbe voluto, si sapeva che era una soluzione motivata da scelte chiaramente povere insufficienti occasionali, effettuate con una sfumatura di speranza, speranza che poi…e invece il “poi “ è spietato, e la crisi già dunque annunciata da tempi lontani, diviene epifania del tragico; e per di più quanti matrimoni sono frutto di una coazione a ripetere – ritrovarsi nelle dinamiche securizzanti della famiglia d’origine – che altro non è se non una più complessa sfaccettatura della tragedia di Edipo – e che aprirà la crisi collettiva quanto meno allargandosi ai figli.
Il destino compie il suo rito, perché forse un giorno dopo l’altro, gli si è concesso un potere assoluto, obnubilati, dimentichi, sprovveduti, importa saperlo? Talvolta così ostinatamente preda delle proprie certezze da non vedere ciò che sarebbe oltremodo evidente[19].
A sovvenire alla crisi di Dante, nel mezzo del cammin, arriva Virgilio, che gli dice che il suo itinerarium è stato voluto da Dio, per intercessione di tre donne, la Vergine, simbolo della carità, Santa Lucia, simbolo della speranza, Beatrice, simbolo della fede. In Dante dunque la scelta che impone la crisi è stata già fatta, al di là di lui stesso, ed anche in qualche modo anche la risoluzione, che lui accoglie, infatti, dopo aver ascoltato Virgilio, propone una similitudine…quali fioretti dal nottunro gelo//chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca//si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec’io di virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse,//ch’i’ cominciai ://come persona franca://“Oh pietosa colei che mi soccorse!//e te cortese ch’ubidisti tosto//ale vere parole che ti porse.//Tu m’hai con desiderio il cor disposto sì al venir con le parole tue, ch’i’ son tornato nel primo proposto.//Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: tu duca, tu segnore, tu maestro”.// Così li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro.[20] Dante, accetta il suo destino, e come fiore al sole si rinvigorisce, si prepara ad affrontare il cammino per quanto possa essere arduo e impegnativo.


Il processo a cui Kakfa alludeva è un incognito procedere verso la condanna, in Dante è invece nell’incontro di quelle tre virtù, Carità Speranza e Fede, che si rivolgono a Dio per assolverlo dalle colpe che lo hanno condotto a smarrir la via, e come penitenza – il destino che si apre – gli affidano il compito di rieducare l’umanità, attraverso il suo cammino spirituale fino a Dio, il suo itinerarium mentis in Deum, diviene exemplum, si offre emblematicamente come soluzione: dal particolare si sale all’Universale; potremmo dire che il destino lo toglie dall’anonimato per proiettarlo nel mondo, ma vedervi anche la consapevolezza del senso della vita, l’aver colto il senso profondo dell’essere in cammino. Anche Adso nel prologo del “Il nome della rosa”, avverte il suo lettore di voler che la sua vita, definita da una crisi adolescenziale, divenga emblematica…giunto alla fine della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai con il mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione[21]. Raccontare come punto di approdo di un ripercorrere un cammino fatto, ritrovarsi nello smarrimento e come punto di svolta per riprendere un altro cammino, dando un senso all’andare nella vita.
Segni di segni, che io banalmente ho poc’anzi chiamato caccole, ma non sono Eco. Preghiera della decifrazione: esercizio di assoluta profonda meditazione, per non dico comprenderla, ma almeno vederla dall’alto la trama delle successioni che hanno intessuto il percorso esistenziale, fino alla crisi, e per scrutare come esserne fuori, se mai se ne potrà uscire compiutamente, e accettando comunque che il percorso laddove si stringe il nodo della crisi è come un alambicco, e quel che farà uscire è qualcosa di diverso da quello che vi è stato introdotto. La crisi è un cambiamento, qualche volta una decantazione. Potremmo osservare che Dante riceve un aiuto importante, che è venuto a mancare a Laio e ad Edipo, ai quali l’indovino indica un evento, una crisi, ma non offre nessuna indicazione su come affrontarla; entrambi, pur in modo differente, sono abbandonati al loro destino; loro peraltro non è che provino a scartare di quel grado di consapevolezza che sposta un poco più in là, tutto procede secondo un percorso quasi prestabilito, ma nessuno si sofferma a porsi domande, le domande si pongono agli dei, che restano indifferenti alla sorte degli uomini, Ananke ha vinto prima ancora di cominciarla la partita.
C’è di più.
Nella dimensione dello smarrimento, Dante trova il senso della sua esistenza, attraverso quella dimensione di contatto, che il cristianesimo chiama Grazia. Edipo procede nello smarrimento, continua ad interrogare il passato, si sfinisce nel cercare le motivazioni, senza guardare il futuro; Giocasta prova a suggerire di interrompere le ricerche, e infine di fronte all’orrore della verità, lei si impicca e lui si acceca! Contrasto terribile, che pone la questione del senso del vivere: vedere–non vedere, illuminazione-cecità, speranza-disperazione, vita-non vita. Una crisi può far procombere in una disperazione angosciante, tale da rendere ciechi, incapaci di vedere oltre, non avere più via d’uscita. Ancora Dante di fronte alle mura della città di Dite, quando Virgilio va a parlamentare con i diavoli, che si chiedono chi sia quell’umano, che da vivo, vuole entrare nella città, viene colto da tale paura, da domandare a Virgilio di rinunciare e riportarlo indietro…così disfatto;//e se il passar più oltre ci è negato,//ritroviam l’orme nostre insieme ratto…[22]; Dante, umano troppo umano, ha perso le sue certezze, la crisi gli fa percepire che tutto gli sembra inutile, il cammino è troppo arduo, tanto che, malgrado le rassicurazioni di Virgilio, il terrore aumenta vieppiù qualche istante dopo quando si palesano le Furie, e che, in un crescendo di terrore, invocano la Medusa, cosicché Virgilio esorta Dante a chiudere gli occhi e lui stesso mette le sue mani sulle mani di Dante per evitare che incroci lo sguardo terribile della Medusa, che pietrifica: ecco proposto qui da Dante sia il motivo della cecità, sia la pietrificazione; la paura può rendere ciechi e può pietrificare, condizioni dalle quali non se ne esce, dal procombere si passa al soccombere, non c’è via d’uscita, la paura paralizza.
Ancora una volta a salvare Dante, arriva un aiuto, questa volta è il messo celeste, simbolo sia della necessità di un supporto, perché da una crisi non è facile uscire sempre da soli, sia della Grazia. L’aiuto, laddove la sola ragione non può nulla, è necessario, e così torniamo alla contemplazione di Ananke, ovvero è tanto necessario riprendere in mano il proprio percorso, in quanto è necessario, ovvero è previsto che così sia, ovvero è nella trama del destino; così come, se non lo è, si perde, il viaggio termina, la vita termina. C’è una necessità di svolta, la crisi impone una svolta, chiede un cambiamento. Che cosa è necessario, se non il senso, il ritrovare il senso del cammino, reale e simbolico. Ananke è questo: la necessità che si attui una svolta. Questo manca a Laio e ad Edipo, che camminano da Tebe a Corinto e viceversa, ascoltano profezie, si interrogano, vogliono sapere di più, ma tutto è privo di comprensione del senso, e il destino, inesorabile, si compie, andando oltre gli stessi protagonisti, coinvolgendo le generazioni successive, che portano il peso delle scelte compiute da altri prima di loro[23].
E, così, siamo tornati al punto: una crisi è preceduta da un percorso e ne prepara un altro, in un cammino che è il destino di ognuno di noi, a cui spetta di interpretarlo.
In questa nostra dimensione della Storia, quella a cui siamo stati assegnati, fosse anche dal mero caso di umori che si sono in un attimo mescolati, la ricerca di senso è più che mai un’urgenza. Oggi rischiamo di essere tutti Laio ed Edipo, a vivere di suggestioni profetiche, succubi pedine di un disegno che altrove si disegna, nelle esposizioni epifaniche di tutto e del contrario di tutto, dove si dileguano i contorni del reale, il rischio di perdere il senso della vita e di essere nella perennità della crisi, come i tebani immersi nella pestilenza, che oggi prende le forme dell’etilismo collettivo della gioventù, nella insignificanza della vita, se non come affermazione di potere personale; si è talmente calati nella crisi, da rischiare di non percepire neppure più di esserci dentro. E tutti, nel vedere sempre meno, indichiamo responsabilità lontane da noi: le generazioni precedenti, le guerre, il malessere sociale e il troppo benessere, e così seguitando.

5.
Viktor Emil Frankl[24] fondatore della scuola psicoanalitica della ricerca di senso, ha scritto…Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve essere; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è[25]. E poco dopo aggiunge…Infelice colui che non vide più il senso della sua esistenza, la sua finalità e il suo scopo, non comprendendo di conseguenza per quale ragione continuare a vivere. Egli fu subito perduto…[26]. In effetti, aggiungo io, vivere si può: accecati, paralizzati nell’anima prima ancora che la morte del corpo ponga la parola fine. In questo senso l’unica opportunità che può offrire una crisi è svegliarsi dal sonno[27], riavvolgere il nastro e riascoltare la registrazione di ciò che è accaduto in funzione degli obiettivi esistenziali che ci avevano, consciamente o non, animato e condotto a quel punto di crisi. Solo la consapevolezza di come si sia arrivati a quel punto, può consentire di considerare quali scelte ancora si possano compiere, e non è detto che ci sia più grande offerta, anzi talvolta l’offerta è nulla, e allora non resterà che entrare consapevolmente nel destino che si apre, quello che esso è, e tendere a viverlo con leggerezza. La crisi è spesso il frutto di una serie di scelte, come abbiamo detto prima, di distrazioni, o di forzature. La psicoanalista e astrologa Liz Greene[28] ha scritto…secondo quanto ho osservato nei soggetti analizzati e nei miei clienti, esiste certamente qualcosa – possiamo denominarlo fato, provvidenza, legge naturale, karma, inconscio – che si vendica quando sono varcati i suoi confini, oppure quando non lo si considera e non si cerca di entrare in rapporto con esso. Non ho la pretesa di sapere cosa ‘ciò’ sia, ma con una certa impudenza sono pronta a chiamarlo Fato[29].
Eccoci al dunque, esserci, vale a dire siamo, siamo per un tratto minimale nel percorso che compie l’Universo, un tratto che, fra la nascita e la morte, chiamiamo vita, un tratto da vivere, in compagnia dell’Universo, che basta per comprendere che siamo un segmento piccolissimo in un sistema molto vasto e articolato. Quel tratto vive nell’Universo in un continuo scambio di informazioni, dove al caso non sembra essere lasciato nulla: il Sole governa il ritmo delle stagioni, ma prima ancora rende possibile la vita stessa. La Luna muove i mari, e sommuove gli umori. 
Segni di segni. Dice Adso:
Un segno: in un punto e in un momento di questo Universo si colloca la nascita di ogni individuo, in un preciso momento di configurazione astrale.
Un altro segno: nel mezzo del cammin di nostra vita, Urano Signore del cambiamento, dell’impazienza, della necessità di ri-pensare e ri-vedere, si pone in opposizione all’Urano di nascita, fra i 38 e 45 anni.
Ancora un segno: non si esce dalla crisi senza un aiuto, un aiutante, come ben ci insegnavano una volta le fiabe di magie: l’eroe nel pieno della crisi, riceve un aiuto o incontra un aiutante.
E ancora un altro segno: Dante riceve l’aiuto di un messo celeste, velocissimo che ha in mano una verghetta, molta critica dantesca vi ha letto il veloce Mercurio con il caduceo, il pianeta più veloce e più vicino al Sole.
Segni di segnimentre canuto senesco come il mondo…
…mentre canuto senesco come il mondo…appunto il mio sguardo, sfoglio i miei classici. Plotino[30] nelle Enneadi aveva scritto…il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, è in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita: che tutti gli eventi formino una unità e siano intessuti assieme è espresso dalle Moire…e prendo a prestito dalla scrittrice inglese Mary Renault[31] la spiegazione delle Moire…la forma compiuta del nostro destino, i suoi contorni. Il compito che gli dei ci assegnano e la porzione di gloria che ci consentono; i limiti che non dobbiamo oltrepassare e la fine stabilita per noi. Queste sono le Moire. Moira è tutte queste cose. Dall’antichità più lontana, dai Veda degli Arii, patrimonio poi degli Induisti, dai Sumeri, dai Babilonesi, dagli Egizi, e passando dai Greci e dai Romani per giungere fino ad oggi, un solo strumento è stato inventato per cercare di comprendere il senso della vita, per tentare di delineare i contorni della forma compiuta del destino, l’astrologia. Non quella che indovini da quattro spiccioli praticano per vedere il futuro, ma quella di chi si piega sulla carta del cielo per capire…il compito che gli dei ci assegnano…o per dirla con Jung per comprendere l’essenza che incarniamo…in ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata. Certamente non tutte le crisi potranno essere evitate, ma forse potranno essere utilizzate per rimettersi in cammino per individuare un itinerarium. Ma allora temet nosce conosci te stesso, è ancora il punto di partenza.


Sapere non è cedere al destino la nostra esistenza, piuttosto direi è interagire con esso. Moira va inteso nel suo profondo essere indicativo di una condizione psicologica; il nome deriva dalla radice indoeuropea smmer o mer, ponderare, pensare, meditare, considerare, curare, aver cura. Come scrive James Hillman[32]è un termine profondamente psicologico, in quanto ci chiede di analizzare da vicino gli eventi per determinare quale porzione viene dall’esterno ed è inspiegabile e quale mi appartiene, attiene a ciò che ho fatto io, avrei potuto fare, posso ancora fare…il fato non mi solleva dalla responsabilità, anzi me ne richiede molta di più.
Ho posto tanti interrogativi, forse a nessuno ho risposto compiutamente, ma almeno una certezza la propongo: alla domanda su cosa abbia scatenato una crisi deve necessariamente seguirne un’altra, qual è il fine? Interpretare il destino che conduce alla crisi non può esimersi dalla ricerca del senso dell’esistenza stessa.






[1] Convivio IV, XXIII, 6-10.
[2] Corinzi 2, 5, 6-7. Il passo completo è…pieni, dunque, sempre di coraggio e consapevoli che mentre viviamo nel corpo siamo pellegrini lungi dal Signore, camminiamo, infatti, nella fede e non nella visione, siamo pieni di coraggio e preferiamo uscire da questo corpo per andare presso il Signore.
[3] Convivio, IV, XXIV, 12…È dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l’hae usata; così l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Nè lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però fu a questa etade necessaria la obedienza.
[4]  San Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente in Dio, Edizioni La Verna, 1963.
[5] Muovendo dal pensiero di Sant’Agostino, che parte dalla conoscenza della propria realtà umana e dall’interiorità del proprio spirito per elevarsi alla conoscenza e all’amore di Dio, San Bonaventura, nell’opera scritta nel 1259, indica le tappe di questo andare verso Dio: vederlo attraverso le vestigia che di lui si trovano nel creato (per vestigium), avvicinarlo penetrando nell’intimo di queste vestigia (in vestigio), guardarlo riflesso in noi (per imaginem) e scoprire il suo volto al fondo della nostra anima (in imagine); elevarsi poi allo stato di estasi, dove i suoi lineamenti s’illuminano di chiarezza e dove cessa ogni conoscenza discorsiva e la mente si fissa in una dotta ignoranza; di qui l’anima, con un ultimo balzo, si unisce a Dio nella sua contemplazione, mentre la parte più pura della mente avverte il flusso incessante della grazia di Dio. L’opera è considerata fra le più alte della mistica medievale.
[6] Inferno I, 10-12.
[7] A questo proposito è di particolare interesse la lettura di Thorwald Dethlefsen e Rüdiguer Dahlke, Malattia e destino, Edizioni Mediterranee, 1986.
[8] Il Sonno, figlio di Erebo e della Notte, fratello della Morte e padre dei Sogni. I poeti gli prestarono le ali, pure immaginandolo addormentato nel paese dei Cimmerii, infondo ad una oscura caverna, al piè della quale scorreva il lento fiume dell’Oblìo. Così il Sonno nella descrizione comunemente fornita della tradizione greca, ma se andiamo un poco più nel dettaglio possiamo scoprire che il Sonno aveva molti fratelli, tutti nati dall’unione di Erebo e la Notte, e per la precisione il Fato, la Vecchiaia, la Morte, l’Assassinio, la Continenza, i Sogni, la Discordia, la Miseria, l’Ira, la Nemesi, la Gioia, L’Amicizia, la Pietà, le tre Moire e le tre Esperidi.
[9] Mi piace riportare qui un’antica leggenda orientale…Molto tempo fa, si narra, viveva nella terra di Isfahan un giovane che trascorreva la sua vita a far da servo a un ricco mercante. Un bel mattino il giovane si recò al mercato, spensierato e con la scarsella tintinnante di monete provenienti dal forziere del mercante, per acquistare della carne, frutta e vino; ma, giunto al mercato, vide la Morte, che si girò verso di lui come se volesse parlargli. Preso dal terrore, il giovane girò il cavallo e scappò via, prendendo la strada che portava a Samara. Sul far della notte, impolverato ed esausto, capitò in una locanda; fattasi dare una stanza pagandola col danaro del mercante, si gettò sul letto in preda alla stanchezza, e tuttavia sollevato dal fatto che – a quanto pareva – era sfuggito alla Morte. Ma nel cuore della notte sentì bussare alla porta della stanza, e nel vano della porta vide profilarsi la Morte, che gli sorrise affabilmente. «Come hai fatto a venire fin qui?», le domandò allora il giovane, fattosi pallido e tremante: «Stamane, quando ti ho vista, eri nel mercato a Isfahan». E la Morte rispose: «Sono venuta perché dovevo raggiungerti, così come è scritto. Infatti, quando ti ho visto stamane nel mercato di Isfahan, ho cercato di dirti che noi due avevamo un appuntamento stasera, a Samara. Ma tu non mi hai lasciato parlare, e sei subito fuggito».
[10] La tragedia ci racconta che un oracolo aveva predetto a Laio, Re di Tebe, e a sua moglie Giocasta, che se essi avessero avuto un figlio, questi avrebbe ucciso il padre e sposato la propria madre. Quando nacque Edipo, Giocasta decise di sfuggire alla predizione dell’oracolo, uccidendo il neonato. Ella consegnò Edipo a un pastore, perché lo abbandonasse nei boschi con i piedi legati e lo lasciasse morire. Ma il pastore, mosso a pietà per il bambino, lo consegnò a un uomo che era a servizio del Re di Corinto, il quale a sua volta lo consegnò al padrone. Il Re adotta il bambino e il giovane principe cresce a Corinto senza sapere di non essere il vero figlio del Re di Corinto. Gli viene predetto dall’oracolo di Delfi che è suo destino uccidere il proprio padre e sposare la propria madre e decide quindi di evitare questa sorte non ritornando più dai suoi presunti genitori. Tornando a Delfi egli ha una violenta lite con un vecchio che viaggia su un carro, perde il controllo e uccide l’uomo e il suo servo senza sapere di aver ucciso suo padre, il Re di Tebe. Le sue peregrinazioni lo conducono a Tebe. In questa città la Sfinge divora i giovinetti e le giovinette del luogo e non cesserà finché qualcuno non avrà trovato la soluzione dell’enigma che essa propone. L’enigma dice: «Che cos’è che dapprima cammina su quattro, poi su due e infine su tre?» La città di Tebe ha promesso che chiunque lo risolva e liberi la città dalla Sfinge sarà fatto Re e gli sarà data in sposa la vedova di Laio. Edipo tenta la sorte. Trova la soluzione all’enigma cioè l’uomo che da bambino cammina su quattro gambe, da adulto su due e da vecchio su tre (col bastone). La Sfinge si getta in mare urlando, Tebe è salvata dalla calamità, Edipo diviene Re e sposa Giocasta, sua madre. Dopo che Edipo ha regnato felicemente per un certo tempo, la città viene decimata dalla peste che uccide molti cittadini. L’indovino Tiresia rivela che l’epidemia è la punizione del duplice delitto commesso da Edipo, parricidio e incesto. Edipo, dopo aver disperatamente tentato di ignorare la verità, si acceca quando è costretto a vederla e Giocasta si toglie la vita. La tragedia termina nel punto in cui Edipo ha pagato il fio di un delitto che ha commesso a sua insaputa, nonostante i suoi consapevoli sforzi per evitarlo.
[11] Albert Camus, La peste, Editions Gallimard, 1947, prima edizione italiana Bompiani, 1948.
[12] Hannah Arendt, La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme. Il titolo originale era Eichmann in Jerusalem, 1963; la traduzione per i tipi di Feltrinelli uscì in italiano l’anno successivo.
[13] Barbara Spinelli, «La crisi come occasione», in La Stampa, domenica 7 dicembre 2008.
[14] Franco Montanari, Ivan Garofalo, Daniela Maletti, Vocabolario della lingua greca, Loescher Editore, 1993.
[15] Karl Ernst Georges, Ferruccio Calonghi, Dizionario della lingua latina, Rosenberg & Sellier, Torino, 1927.
[16] Howard Sasportas, Gli dei del cambiamento,ZAZZUbe, quale opportunità offrirebbe, e che diviene quindi responsabile delle sue azioni.suale, ma che nasce invece  uno sposta Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2000. Nell’introduzione, riportando il concetto di “crisi” nella lingua cinese, dice che…è reso con un vocabolo ricco di saggezza, wei-chi, una combinazione di due parole, pericolo (wei) e opportunità (chi) [pag.5]. La traduttrice Alessandra Vita, in un articolo del 2014, ha sostenuto che questa lettura sia impropria…Infatti, il carattere cinese “crisi” (wēijī) è composto da due sillabe scritte ognuna con un carattere diverso, wēi () e jī (/)…la sillaba jī di wēijī non significa affatto “opportunità”, ma “momento cruciale”, ossia ‘quando comincia o cambia qualcosa’. .
la vicndaenza di quanto è rimasto di irrisolto nelal vicneda di Edipociò che sarebbe oltremodo evidentechi) [pag.5*]
[17] Eschilo, Prometeo, 96-104.
[18] Franz Kafka, Il processo, 1925.
[19] Per esempio, ecco una classica storiella psichiatrica. Un uomo è convinto di essere morto. Dice ai familiari: «Sono morto» e i familiari lo mandano da uno specialista. Subito tra medico e paziente incomincia un’accanita discussione. Il medico fa appello ai sentimenti dell’uomo verso la vita, verso la famiglia. Poi prova a farlo ragionare, dimostrandogli l’intrinseca contraddizione di una frase come «Sono morto»: i morti non sono in grado di dire che sono morti, perché è appunto in questo che consiste l’essere morti. Alla fine il medico ricorre all’evidenza dei sensi. Domanda all’uomo: «I morti sanguinano?». «Certo che no» risponde l’uomo, spazientito dall’ottusa dabbenaggine della mente dei medici. «Lo sanno tutti che i morti non sanguinano». Al che il medico gli punge un dito. Ne esce una goccia di sangue. «Ma guarda un po’, chi l’avrebbe mai detto» esclama l’uomo. «I morti sanguinano, eccome». Cfr. James Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi Edizioni, 1991, pag. 18.
[20] Inferno II, 127-142.
[21] Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980, pag. 19.
[22] Inferno VIII, 100-102.
[23] La tragedia di Antigone è la conseguenza di quanto è rimasto di irrisolto nella vicenda di Edipo.
[24] Viktor Emil Frankl (Vienna, 26 marzo 1905 – Vienna, 2 settembre 1997) è stato un neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, uno fra i fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia. Il metodo di Frankl è considerato come il terzo metodo della scuola viennese (dopo quelli di Sigmund Freud e Alfred Adler).
[25] Homo patiens. Soffrire con dignità.
[26] Ibidem.
[27] È interessante che Frankl usi la stessa espressione di Dante…Fu in quel periodo che mi scossi finalmente dal sonno, mi destai dallo psicologismo. Ero infatti stato illuminato dalla stella di Max Scheler, la cui opera Il formalismo nell’etica materiale dei valori portavo sempre con me come una Bibbia. Cfr. Viktor Emil Frankl, Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Carocci Editore, 2012, pag. 26.
[28] Liz Greene (Englewood, 4 settembre 1946) è una psicologa britannica di origine statunitense. Figura di spicco dell’astrologia contemporanea, ha conseguito un dottorato in psicologia ed è analista junghiana; ha inoltre un diploma presso il Centre for Transpersonal Psychology di Londra e presso la Faculty of Astrological Studies. Fonda nel 1983 il Centre for Psychological Astrology di Londra, tuttora da lei diretto, insieme ad Howard Sasportas.
[29] Suggerisco il testo di Liz Greene, Astrologia e destino, Armenia Edizioni, 1995, che affronta con molta accuratezza questa tematica.
[30] Plotino (Licopoli, 203/205 – Campania, 270) è stato un filosofo greco antico. Erede di Platone e padre del neoplatonismo, è considerato uno dei più importanti filosofi dell’antichità.
[31] Mary Renault (Londra, 4 settembre 1905 – Città del Capo, 13 dicembre 1983) è stata una scrittrice britannica, nota principalmente per i suoi romanzi storici di ambientazione classica. In particolare ha dedicato tre romanzi e una biografia alla figura di Alessandro Magno.
[32] James Hillman (Atlantic City, 12 aprile 1926 –Thompson, 27 ottobre 2011) è stato uno psicologo, psicoanalista junghiano, saggista e filosofo statunitense.

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