Intervento tenuto giovedì 16 gennaio 2020, presso lo Studio Novelli, Genova.
1.
«Nel mezzo del cammin di nostra
vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.»
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.»
La
più bella metafora di una crisi di mezza età o di un’età di mezzo o un’età in
mezzo a…; che la crisi si apra nel mezzo
del cammin di nostra vita, tradizionalmente fissata nei 35 anni di vita, lo
ricorda Dante nel Convivio…lo punto sommo di questo arco [della vita terrena] ne li più credo [sia] tra il trentesimo e il quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno…[1]; e rimanda a riferimenti antichissimi, e forse il più
antico al Salmo XC…I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni;//o, per i
più forti, a ottant’anni;//e quel che ne fa l’orgoglio, non è che travaglio e
vanità;//perché passa presto, e noi ce ne voliam via. Dante ci racconta la sua crisi, crisi dell’individuo, che
eleggo per addentrarci in questo argomento, a metafora della crisi che ogni
individuo affronta quando giunge al momento di svolta della cosiddetta mezza
età, e inevitabilmente si fanno i conti con la vita; teniamo conto che nel
nostro tempo il prolungamento della durata della vita inevitabilmente sposta
poco più avanti la metà del cammin.
Cammin, dice Dante cogliendo
ancora una volta dalla Bibbia, questa volta dal Nuovo Testamento, da Paolo, che
aveva sostenuto…dum sumus in corpore peregrinamur a Domino, per fidem enim ambulamus et non per speciem[2],
esortando a comprendere il senso del camminare nella fede; Dante aveva già
esposto questo concetto nel Convivio[3], dove aveva chiarito anche il senso di selva oscura, strada erronea, il luogo-tempo in cui l’anima si perde, e si entra così in una specie si sonno-veglia, che consente un di più di percezione e si prende consapevolezza che si sono smarriti i contorni del reale, che le coordinate esistenziali si sono confuse; per il momento si sa soltanto che si è in una crisi, dalla quale occorre uscirne, si deve affrontare un itinerarium mentis, se si può, se si riesce a individuare la via d’uscita, forse da soli non sarà possibile, forse ci vorrà un aiuto esterno, un aiutante. Dante fa la sua proposta etica e teologica, trascendente, guardando alla via del Bene, al Bonum che è nell’ordine cosmico di Dio: mettersi su un altro cammino è affrontare l’itinerarium mentis in Deum[4] secondo l’indicazione di Bonaventura da Bagnoregio[5]. Da una crisi non se ne esce, se non con un itinerarium mentis, se si rifiuta la via della trascendenza si può scegliere di viaggiare
sul divano dello psicanalista, piuttosto che su quello del confessore, oppure si
può sedere con il partner davanti al consulente di coppia, o, visto che si è
sempre più dediti alla frammentazione specialistica, sedersi davanti al
consulente più opportuno, rebus sic
stantibus. Torno ancora sulla metafora dantesca, perché ha in sé elementi
di grande utilità, innanzi tutto perché la crisi non è esplosa all’improvviso,
infatti ci si ri-trova ovvero si è
giunti: alle spalle del punto di crisi c’è
stato un percorso, che si può non
aver valutato, persino non averlo
percepito, per cui può apparire all’improvviso che la diritta via è smarrita, ma non
ci si è giunti per caso, come Dante stesso afferma…Io non so ben ridir com’ì v’intrai,//tant’era pien di sonno a quel
punto//che la verace via abbandonai[6].
Ci si arriva alla crisi, si può non sapere quando si sia intrapreso il percorso che lì ci ha condotto, al punto di rottura, ma quando lì si è giunti, è necessario avere la consapevolezza che è stato compiuto un percorso; non a tutti è data l’onestà intellettuale di Dante, tanti rifiutano di essere stati su un percorso che esita in una crisi, meglio infatti immaginare che il destino avverso ci abbia spinto; il “fuori da noi” ci risparmia l’analisi delle responsabilità; il destino, anche chi lo rifiuta concettualmente, infine lo invoca pur di non assumersi responsabilità, così come, ugualmente, si tende a pensare la malattia come qualcosa che viene da fuori…mi sono preso il raffreddore, mi hanno attaccato l’influenza[7].
Pien di sonno, dice
Dante. Il sonno[8],
sonno della ragione, sonno dei sentimenti, aridità, incoscienza, irresponsabilità:
forse non ha tanto senso comprenderne la componente o coglierne la sfumatura;
indubbio però che ad una crisi ci si arriva; tanti immaginano, perché
vorrebbero che così fosse, che la crisi arrivi da fuori, irrompa
improvvisamente, ma non è così, neppure quando si aprisse il pavimento sotto di
noi: c’è una storia prima, di cedimenti, di trascuratezza, di mala costruzione,
di sottovalutazione del carico, anche qui non importa comprendere la componente,
è importante cogliere che la crisi è
un’emergenza, nel più preciso senso del temine latino e-mergo far risalire ciò che è affondato, sommerso. E, se
proprio volessimo farci una domanda dovremmo chiederci come mai proprio ora che
siamo qui, il pavimento cede, e potremmo scoprire che a questo appuntamento ci
eravamo preparati[9].
Questo percorso, che conduce ad una crisi, è stato già scritto; potremmo forse interrogarci
su come è stato scritto, su
chi l’ha scritto, oppure
chiederci con chi? Tante “caccole” le
lasciamo distrattamente noi, nei nostri percorsi, talvolta privi della
consapevolezza che anche un semplice scarto di un grado dal percorso, proiettato
in un tempo lungo, rappresenta uno spostamento dalla meta iniziale, anche di non
poco rilievo; su alcuni aspetti della nostra esistenza, c’è qualcosa che non sempre
sembra totalmente dipendere da noi, almeno non nella misura dell’umana
razionalità, o piuttosto non così evidente ad una prima indagine. Sorgono
domande: avrebbe avuto Dante la medesima capacità di rendere universale la sua crisi, attraverso quel
monumento di opera, che è la Divina Commedia, nascendo in Irlanda, piuttosto
che in Boemia, e non in quel pullulare di cultura e di idee che era la Firenze
del suo tempo? O se fosse vissuto, poco dopo, a cavallo della grande peste del
1348, il suo afflato mistico sarebbe stato uguale, o non si sarebbe posto quei
dolenti interrogativi che ritroveremo in Petrarca e in Boccaccio? Domande,
forse peregrine, alle quali non so dare risposta, se non che un imprescindibile
punto fermo nel cammin di ognuno di
noi, è da dove parte il cammin: la
data cronica e topica della nascita è
un punto chiave nel destino di ogni essere umano; poi, per essere pignoli,
potremmo aggiungere che anche i geni ereditati da padre e madre, e almeno dai
quattro nonni, per non allargarci troppo, qualcosa ci mettono, ma quel metterci
degli avi si risolve nell’atto del concepimento e si manifesta nel momento della
nascita, tutto il resto è conseguenza. Quel tempo e quel luogo sono
imprescindibili coordinate che segnano la curva della vita, secondo un preciso
percorso, dove ad ognuno è dato di compiere solo una parte, neppur così rilevante,
di autonoma decisione.
2.
La città di Tebe è ammorbata da un
miasma fetido, muoiono uomini e animali: si è aperta una crisi collettiva; così la tragedia di
Eschilo prende le mosse, quando il popolo si rivolge ad Edipo, il valoroso re, che
ha sconfitto la Sfinge, perché trovi il rimedio a tanto male; in realtà siamo
all’epilogo di varie storie intrecciate fra loro[10]: il tragico, il nucleo
della crisi, si è avviato molti anni prima, quando Laio, inseguendo un
vaticinio, temendo di morire per mano del suo figlio appena nato, lo affida ad
un servo che lo uccida lontano dalla città; il servo, preda di compassione, pur
avendo accettato l’incarico, non uccide il bambino, ma lo affida ad un pastore,
che lo porta in un’altra città, a Corinto, dove il Re lo vede e lo tiene per sé, e poiché
il suo è matrimonio sterile, lo adotta come figlio, il quale crescendo,
suggestionato a sua volta da un vaticinio che gli predice che ucciderà suo
padre e giacerà con sua madre, fugge da casa, nel timore di uccidere il proprio
amato padre e di commettere incesto, ma sulla via della fuga, ad un trivio,
incontra il vero padre Laio, che si sta dirigendo a Delfi, per consultare
l’oracolo, che ovviamente Edipo non riconosce, e con il quale ha uno scontro cosicché
finisce per ucciderlo, assecondando almeno una parte del vaticinio; giunto a
Tebe e risolto l’enigma della Sfinge, il popolo lo acclama e lo fa sposare con
la regina Giocasta, sua ignota madre, per diventare re. La crisi aperta con la
pestilenza è appunto causata dall’assassino di Laio, che impunito è in città,
così l’indovino cieco Tiresia si esprime.
Evidente
il ruolo di elementi non facilmente ascrivibili alla sola consapevolezza, riportabili
alla ineluttabilità del destino, se vogliamo. Potevano sfuggire Laio ed Edipo
alla loro sorte? L’eccesso di credulità li rende facili assecondatori di un
destino, che sembra più una necessità, Ananke,
dalla quale non sfuggono neppure gli dei? Che loro siano pur stati facilmente
plagiabili, perché ciò si riverbera sull’intera città e comporta una crisi
collettiva? Non sarà forse che quel popolo non aveva valutato abbastanza quel
giovane, subitamente promosso re per aver risolto il quesito della Sfinge,
senza altra domanda porgli, senza altra inchiesta? E, come mai gli dei così
tanto prodighi di vaticinii attraverso i loro portavoce, in quell’occasione non
furono inchiestati e non fecero sentire la loro voce in altro modo? Chi mai
fosse Edipo, da dove venisse? Nulla, accolto e spedito dritto nel letto della
regina (sua madre) vedova, per sacralizzarne l’elezione. E la regina, una
domanda su questo giovane, che ha l’età che avrebbe avuto suo figlio se suo
marito non l’avesse mandato a morte, non se la pone? Accetta di essere
strumento di una volontà collettiva? Sembra che nessuno si domandi niente, solo
accettazione remissiva ai vaticini, alle profezie, a una sorta di delirio
collettivo, e il destino compie il suo rito, e fa il suo corso; se Edipo per
mano del servo fosse stato ucciso non avremmo avuto questo percorso, che di
fatto è governato dalla mano misericordiosa del servo stesso che
compassionevole non lo uccide, ma lo risparmia; il servo sarebbe allora la
necessaria pedina del destino che voleva che la tragedia così si srotolasse?
Chi crede ai vaticinii e poche domande si pone, chi disubbidisce al comando,
chi assurge a gloria immediata per aver risolto un quesito, rapidi matrimoni a
dare quel tocco di sacralità che sembra essere quasi necessario per un di più
di consenso popolare, quante altre storie si sono scritte con questi elementi,
quanta realtà, quanti romanzi, quanti spettacoli, quanta politica: se cambiamo
i nomi e ci mettiamo “influncer”, “leader”, voltagabbana, matrimoni
d’interesse, ecc, il gioco è ancora quello, qualcuno lo vuole chiamare destino,
qualcun altro si stupisce per le crisi che ne conseguono.
Potrebbe
sembrare strano che nessuno si faccia una domanda prima, eppure nella mia
esperienza di studio, posso dire che sono tante le situazioni di crisi, giunte
come sembrerebbe all’improvviso, e che invece hanno radici lontane, talvolta
evidenti, eppure si è restii a porsi alcune domande, talvolta ovvie. Albert Camus,
descrivendo un’altra pestilenza[11], farà dire ad un
personaggio chiave del suo romanzo, in una sorta di confessione…diciamo per semplificare che io soffrivo
della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia. Basti dire
che io sono come tutti quanti; ma ci sono persone che non lo sanno, o che si
trovano bene in tale stato e persone che lo sanno e vorrebbero uscirne…
Spesso
dietro una crisi, che apparentemente scoppia in un certo momento, c’è soltanto la banalità del male, come scriverà
icasticamente Hannah Arendt[12]: l’aver lasciato che le
cose procedessero senza nessuna riflessione, l’aver ciecamente assolto un ruolo
da fedeli esecutori, essere stati assecondatori
di un destino, inerti pedine di un gioco, nel quale è possibile esserci,
talvolta sapendo di esserci, ma talvolta ignari, o ancor peggio indifferenti della posta del gioco stesso. Ogni crisi è
conseguenza di un destino, e a sua volta apre un destino.
3.
Il
termine crisi, come ebbe a scrivere Barbara Spinelli nel 2009, è uno dei
più tentacolari…più che una parola, è un
albero dai rami incessanti[13]. Pensiamo solo ad alcuni ambiti
di utilizzo: crisi economica, crisi di governo, crisi di coppia, crisi sociale,
crisi politica, essere in crisi, vivere una crisi, e chi più ne ha più ne
metta. Occorre grande prudenza dunque per arrampicarsi su questi rami. Per
non parlare dell’altra parola destino, che ha avuto negli ultimi secoli
un vero e proprio destino, per giocare con le parole: attendere il proprio
destino, essere giunti a destinazione, un destino crudele, un destino incerto,
sottostare al destino, era destinato a…, e avanti fino alla fine del nostro
tempo. Due termini particolarmente complicati, più che ancora che complessi.
Vediamo intanto come si sono addensati di senso, a partire dalla loro origine.
Il termine Crisi deriva,
nell’accezione comune, dal verbo greco Krino, dai vari significati di scelta,
separare, discernere, valutare, giudicare. In origine si ritiene che indicasse
nel mondo agricolo della Grecia la fase di separazione del grano dalla pula,
non solo discernere, ma anche interpretare. In sé il nome conteneva già la
connotazione di indicare una scelta, si separa qualcosa da qualcos’altro,
attraverso un discernimento, un intervento che è una forma del giudicare. Nel vocabolario della lingua greca[14], attraverso lo studio
della classicità greca, si può individuare come il termine fosse transitato ad
indicare non solo giudicare, ma anche
capacità di giudicare, non solo discernimento ma anche interpretazione soprattutto di sogni, e infine assumendo una serie
di valori afferenti al contesto giuridico, ovvero processo, accusa, condanna. Nella lingua latina, crisis, transita prevalentemente tanto
come decisione da prendere, quanto come momento chiave in cui si manifesta una
malattia, ma anche con il significato sia di giudizio critico sia di momento
critico[15]. Torniamo ancora un momento in Grecia,
dove Ippocrate di Coo, nel V secolo a.C. chiama crisis, quel momento nell’evoluzione della malattia in cui si decide: o si va verso la ripresa
e la guarigione o si va verso il fatale
aggravamento; momento di svolta, e mi soffermo su si decide, traduzione forse non del tutto precisa, ma chiara
comunque nel senso.
Si decide, e la
domanda sorge spontanea: Chi decide? A tutt’oggi, in tante difficilissime
situazioni critiche di salute, a
decidere per una svolta in una delle due opzioni, non si sa bene chi sia: il
medico, la forza del paziente, o qualcosa di imponderabile che ancora ci
sfugge? E ancora mi soffermo su quel fatale, che tanto rimanda al Fato, pur usato
così tante volte inconsapevolmente nel suo significato primario: inseguimento
fatale, fatale errore, inganno fatale, attrazione fatale, e infine potremmo
pensare a quanti hanno conosciuto une
femme fatale, che solitamente indica una conoscenza rovinosa. In quel fatale, c’è dunque qualcosa che indica che c’è stato una svolta nel
corso degli eventi. Potremmo parlare di una svolta del destino? È forse il Destino
che decide? Oggi noi usiamo quasi in modo interscambiabile i due termini, fato
e destino, che in realtà differivano originariamente in quanto Fato esprimeva
quasi una sottomissione ad una necessità talvolta ignota, che persino potrebbe
apparire casuale, ma che organizza invece una successione di eventi
immodificabili; destino appartiene alle possibilità umane, secondo il detto
latino faber est suae quisque fortunae,
che lascia all’uomo libertà di decisione e di scelta, e che diviene quindi
responsabile delle sue azioni.
Allora
proviamo a dare una linea di indirizzo, che nasce proprio dall’esigenza di
riportare i termini ad una correlazione di senso, a partire dalla domanda se
davvero possono stare insieme. La crisi apre una necessaria scelta, molti
sostengono che questa scelta offra un’opportunità[16]. La offre sempre? Mi
chiedo se in una crisi che nasca da un terremoto, che rade a zero un intero
paese, l’opportunità riposi sull’eventuale ricostruzione o sulla necessaria
migrazione verso un altro paese? Potrebbe essere, ma mi viene difficile
accettarlo. Essere vittime di un attentato che toglie l’uso delle gambe, quale
opportunità offrirebbe? E potremmo, spostandoci su un'altra prospettiva, domandarci
tuttavia come mai abitavamo in quel paese o città al momento del terremoto
oppure come mai pur abitando in quel paese o in quella città, in quel momento
del terremoto, ci trovavamo da un’altra parte del mondo, quale è dunque l’opportunità,
era destino che non ci fossimo? Nell’attentato, l’opportunità è saturata
dall’essere sopravvissuti, pur divenuti monchi?
La
psicologia oggi intende il termine crisi
come uno sconvolgimento dell’assetto interiore di un individuo, dal quale se ne
può uscire o non, si ritiene che ciò possa dipendere dalla presa di coscienza, che induce ad una modifica dello stile di vita,
delle scelte da operare; ma in base a cosa
si possono attuare queste scelte? La presa di coscienza può farci vedere
una prospettiva di vita, che tuttavia non siamo in grado di sostenere
economicamente o socialmente, o comunque inattuabile senza un necessario
coinvolgimento di altri, ad esempio stabilire che il rapporto di coppia non sia
più idoneo, nel rimetterlo in discussione avvia una procedura che coinvolge
un’altra persona, ovvero si apre una crisi
nell’altro, per non parlare di quando vengono coinvolti i figli, aprendo in
loro una crisi di portata non sempre facilmente calcolabile, e alla quale loro
sono spesso impotenti non solo a trovare una via d’uscita, ma a comprenderne il
senso. Lasciamo da parte la crisi
dell’individuo, che diventa consapevole della necessità di una svolta, ma
quelli che vengono coinvolti come li consideriamo? Il destino ha aperto una
serie di conseguenze per loro, il destino dunque è cieco, irrispettoso, o
necessario? Ovvero era necessario che
anche loro fossero chiamati ad una loro
presa di coscienza? Eschilo fa dire a Prometeo…il destino che il fato mi ha assegnato devo sopportare meglio che
posso; so bene infatti che nessuno contro necessità, contro la sua forza, può
combattere e vincere[17].
4.
La
sociologia, la politica, l’economia parlano di crisi collettive: la crisi
finanziaria coinvolge tutti gli azionisti di una Banca, o gli investitori in
borsa, ma la dizione è una superfetazione linguistica, infatti la crisi
collettiva altro non è che la somma di tante crisi individuali, attivate dal
medesimo fenomeno, come il terremoto, e alla stessa stregua quello che conta è
come i singoli vengano convolti, secondo
la loro condizione, che è precedente alla crisi stessa, potremmo dire secondo
quanto il destino per loro aveva già scritto? Ovvero ognuno arriva alla crisi,
portatore di una differente storia…la
sentenza non viene di colpo. È il processo che la trasforma a poco a poco in
sentenza…ebbe a dire Franz Kafka[18].
E
così torniamo a più d’uno degli ambiti di significato del termine crisi: c’è un percorso, una trama sulla quale ogni individuo si muove e
che può impattare in una crisi,
qualunque ne sia la natura, una crisi che ha già, in qualche modo, previste le
soluzioni, previste o forse meglio dire predisposte: occorre operare delle
scelte o accettare, c’è margine per una regia o non c’è altro che accettare o
persino subire, spesso la risposta non è soltanto nella crisi, ma persino nel
percorso che alla crisi ha condotto.
Quello
che può apparire ineluttabile, spesso
lo è diventato, a piccoli passi, un giorno dopo l’altro. Nella mia pratica
professionale mi è capitato di ascoltare persone che recriminano di aver
compiuto una scelta di studi, che sapevano non interessante per loro, ma fatta
per stare insieme ad alcuni compagni di scuola (paura di affrontare la vita,
bisogno di certezza) o per assecondare aspettative dei genitori (bisogno di
consenso, ricerca di amore), e alla domanda se avrebbero potuto scegliere
diversamente, la riposta era affermativa, ma ne fu fatta un’altra, e quella
scelta ne ha prodotto a cascata altre e, alla fine, quando la crisi arriva, non
è più così facile rimettere in gioco il proprio destino. Scoprirsi da un’altra parte rispetto a dove avremmo voluto
essere, spesso non offre nessuna alternativa all’accettare di essere dove si è
giunti, piaccia o non. Alla stessa stregua frequentemente la crisi matrimoniale
è fatta risalire, con lucidità ammirevole ad una qualche motivazione remota, si
sapeva già prima dell’unione civile o religiosa che sia stata, che non era
quello che si avrebbe voluto, si sapeva che era una soluzione motivata da scelte chiaramente povere insufficienti
occasionali, effettuate con una sfumatura di speranza, speranza che poi…e
invece il “poi “ è spietato, e la crisi già dunque annunciata da tempi lontani,
diviene epifania del tragico; e per di più quanti matrimoni sono frutto di una
coazione a ripetere – ritrovarsi nelle dinamiche securizzanti della famiglia
d’origine – che altro non è se non una più complessa sfaccettatura della
tragedia di Edipo – e che aprirà la crisi collettiva quanto meno allargandosi
ai figli.
Il
destino compie il suo rito, perché forse un giorno dopo l’altro, gli si è
concesso un potere assoluto, obnubilati, dimentichi, sprovveduti, importa
saperlo? Talvolta così ostinatamente preda delle proprie certezze da non vedere
ciò che sarebbe oltremodo evidente[19].
A
sovvenire alla crisi di Dante, nel mezzo
del cammin, arriva Virgilio, che gli dice che il suo itinerarium è stato voluto da Dio, per intercessione di tre donne,
la Vergine, simbolo della carità, Santa Lucia, simbolo della speranza,
Beatrice, simbolo della fede. In Dante dunque la scelta che impone la crisi è stata già fatta, al di là di lui
stesso, ed anche in qualche modo anche la risoluzione, che lui accoglie,
infatti, dopo aver ascoltato Virgilio, propone una similitudine…quali fioretti dal nottunro gelo//chinati e
chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca//si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal
mi fec’io di virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse,//ch’i’
cominciai ://come persona franca://“Oh
pietosa colei che mi soccorse!//e te cortese ch’ubidisti tosto//ale vere parole
che ti porse.//Tu m’hai con desiderio il cor disposto sì al venir con le parole
tue, ch’i’ son tornato nel primo proposto.//Or va, ch’un sol volere è
d’ambedue: tu duca, tu segnore, tu maestro”.// Così li dissi; e poi che mosso
fue, intrai per lo cammino alto e silvestro.[20] Dante, accetta il suo
destino, e come fiore al sole si rinvigorisce, si prepara ad affrontare il
cammino per quanto possa essere arduo e impegnativo.
Il
processo a cui Kakfa alludeva è un incognito procedere verso la condanna, in
Dante è invece nell’incontro di quelle tre virtù, Carità Speranza e Fede, che
si rivolgono a Dio per assolverlo dalle colpe che lo hanno condotto a smarrir la via, e come penitenza – il
destino che si apre – gli affidano il compito di rieducare l’umanità,
attraverso il suo cammino spirituale fino a Dio, il suo itinerarium mentis in Deum, diviene exemplum, si offre emblematicamente
come soluzione: dal particolare si sale all’Universale; potremmo dire che il
destino lo toglie dall’anonimato per proiettarlo nel mondo, ma vedervi anche la
consapevolezza del senso della vita, l’aver colto il senso profondo dell’essere
in cammino. Anche Adso nel prologo del “Il nome della rosa”, avverte il suo
lettore di voler che la sua vita, definita da una crisi adolescenziale, divenga
emblematica…giunto alla fine della mia vita
di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi
nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della
luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai con il mio
corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a
lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui
in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii,
senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se
l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la
preghiera della decifrazione[21]. Raccontare come punto di
approdo di un ripercorrere un cammino fatto, ritrovarsi nello smarrimento
e come punto di svolta per riprendere un
altro cammino, dando un senso all’andare nella vita.
Segni
di segni, che io banalmente ho poc’anzi chiamato caccole, ma non sono Eco.
Preghiera della decifrazione: esercizio di assoluta profonda meditazione, per
non dico comprenderla, ma almeno vederla dall’alto la trama delle successioni
che hanno intessuto il percorso esistenziale, fino alla crisi, e per scrutare
come esserne fuori, se mai se ne potrà uscire compiutamente, e accettando
comunque che il percorso laddove si stringe il nodo della crisi è come un alambicco, e quel che farà uscire è qualcosa di
diverso da quello che vi è stato introdotto. La crisi è un cambiamento, qualche
volta una decantazione. Potremmo osservare che Dante riceve un aiuto
importante, che è venuto a mancare a Laio e ad Edipo, ai quali l’indovino
indica un evento, una crisi, ma non
offre nessuna indicazione su come affrontarla; entrambi, pur in modo
differente, sono abbandonati al loro destino; loro peraltro non è che provino a
scartare di quel grado di consapevolezza che sposta un poco più in là, tutto
procede secondo un percorso quasi prestabilito, ma nessuno si sofferma a porsi
domande, le domande si pongono agli dei, che restano indifferenti alla sorte
degli uomini, Ananke ha vinto prima
ancora di cominciarla la partita.
C’è
di più.
Nella
dimensione dello smarrimento, Dante trova il senso della sua esistenza,
attraverso quella dimensione di contatto, che il cristianesimo chiama Grazia.
Edipo procede nello smarrimento, continua ad interrogare il passato, si
sfinisce nel cercare le motivazioni, senza guardare il futuro; Giocasta prova a
suggerire di interrompere le ricerche, e infine di fronte all’orrore della
verità, lei si impicca e lui si acceca! Contrasto terribile, che pone la
questione del senso del vivere: vedere–non vedere, illuminazione-cecità,
speranza-disperazione, vita-non vita. Una crisi può far procombere in una disperazione angosciante, tale da
rendere ciechi, incapaci di vedere oltre, non avere più via d’uscita. Ancora
Dante di fronte alle mura della città di Dite, quando Virgilio va a
parlamentare con i diavoli, che si chiedono chi sia quell’umano, che da vivo,
vuole entrare nella città, viene colto da tale paura, da domandare a Virgilio
di rinunciare e riportarlo indietro…così
disfatto;//e se il passar più oltre ci è negato,//ritroviam l’orme nostre
insieme ratto…[22]; Dante, umano troppo umano, ha perso le sue certezze, la crisi gli
fa percepire che tutto gli sembra inutile, il cammino è troppo arduo, tanto
che, malgrado le rassicurazioni di Virgilio, il terrore aumenta vieppiù qualche
istante dopo quando si palesano le Furie, e che, in un crescendo di terrore,
invocano la Medusa, cosicché Virgilio esorta Dante a chiudere gli occhi e lui
stesso mette le sue mani sulle mani di Dante per evitare che incroci lo sguardo
terribile della Medusa, che pietrifica: ecco proposto qui da Dante sia il
motivo della cecità, sia la pietrificazione; la paura può rendere ciechi e può
pietrificare, condizioni dalle quali non se ne esce, dal procombere si passa al
soccombere, non c’è via d’uscita, la paura paralizza.
Ancora
una volta a salvare Dante, arriva un aiuto, questa volta è il messo celeste, simbolo sia della
necessità di un supporto, perché da una crisi non è facile uscire sempre da
soli, sia della Grazia. L’aiuto, laddove la sola ragione non può nulla, è
necessario, e così torniamo alla contemplazione di Ananke, ovvero è tanto
necessario riprendere in mano il proprio percorso, in quanto è necessario, ovvero è previsto che così
sia, ovvero è nella trama del destino; così come, se non lo è, si perde, il
viaggio termina, la vita termina. C’è una necessità di svolta, la crisi impone
una svolta, chiede un cambiamento. Che cosa è necessario, se non il senso, il
ritrovare il senso del cammino, reale e simbolico. Ananke è questo: la necessità che si attui una svolta. Questo manca
a Laio e ad Edipo, che camminano da Tebe a Corinto e viceversa, ascoltano
profezie, si interrogano, vogliono sapere di più, ma tutto è privo di
comprensione del senso, e
il destino, inesorabile, si
compie, andando oltre gli stessi protagonisti, coinvolgendo le generazioni
successive, che portano il peso delle scelte compiute da altri prima di loro[23].
E,
così, siamo tornati al punto: una crisi è preceduta da un percorso e ne prepara
un altro, in un cammino che è il destino di ognuno di noi, a cui spetta di
interpretarlo.
In
questa nostra dimensione della Storia, quella a cui siamo stati assegnati,
fosse anche dal mero caso di umori che si sono in un attimo mescolati, la
ricerca di senso è più che mai
un’urgenza. Oggi rischiamo di essere tutti Laio ed Edipo, a vivere di suggestioni
profetiche, succubi pedine di un disegno che altrove si disegna, nelle
esposizioni epifaniche di tutto e del contrario di tutto, dove si dileguano i
contorni del reale, il rischio di perdere il senso della vita e di essere nella
perennità della crisi, come i tebani immersi nella pestilenza, che oggi prende
le forme dell’etilismo collettivo della gioventù, nella insignificanza della
vita, se non come affermazione di potere personale; si è talmente calati nella crisi, da rischiare di non percepire neppure
più di esserci dentro. E tutti, nel vedere sempre meno, indichiamo
responsabilità lontane da noi: le generazioni precedenti, le guerre, il
malessere sociale e il troppo benessere, e così seguitando.
5.
Viktor
Emil Frankl[24] fondatore della scuola psicoanalitica della ricerca di senso, ha scritto…Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo
conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto
nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si
possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo
può “avere”, ma ciò che l’uomo deve essere; un luogo dove restava unicamente l’uomo
nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Cos’è,
dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è[25]. E poco dopo aggiunge…Infelice
colui che non vide più il senso della sua esistenza, la sua finalità e il suo
scopo, non comprendendo di conseguenza per quale ragione continuare a vivere.
Egli fu subito perduto…[26]. In effetti, aggiungo io,
vivere si può: accecati, paralizzati nell’anima prima ancora che la morte del
corpo ponga la parola fine. In questo senso l’unica opportunità che può offrire
una crisi è svegliarsi dal sonno[27], riavvolgere il nastro e
riascoltare la registrazione di ciò che è accaduto in funzione degli obiettivi
esistenziali che ci avevano, consciamente o non, animato e condotto a quel
punto di crisi. Solo la consapevolezza di come si sia arrivati a quel punto, può
consentire di considerare quali scelte ancora si possano compiere, e non è
detto che ci sia più grande offerta, anzi talvolta l’offerta è nulla, e allora
non resterà che entrare consapevolmente nel destino che si apre, quello che
esso è, e tendere a viverlo con leggerezza. La crisi è spesso il frutto di una
serie di scelte, come abbiamo detto prima, di distrazioni, o di forzature. La
psicoanalista e astrologa Liz Greene[28] ha scritto…secondo quanto ho osservato nei soggetti
analizzati e nei miei clienti, esiste certamente qualcosa – possiamo
denominarlo fato, provvidenza, legge naturale, karma, inconscio – che si
vendica quando sono varcati i suoi confini, oppure quando non lo si considera e
non si cerca di entrare in rapporto con esso. Non ho la pretesa di sapere cosa
‘ciò’ sia, ma con una certa impudenza sono pronta a chiamarlo Fato[29].
Eccoci
al dunque, esserci, vale a dire siamo, siamo per un tratto minimale nel
percorso che compie l’Universo, un tratto che, fra la nascita e la morte,
chiamiamo vita, un tratto da vivere, in compagnia dell’Universo, che basta per comprendere
che siamo un segmento piccolissimo in un sistema molto vasto e articolato. Quel
tratto vive nell’Universo in un continuo scambio di informazioni, dove al caso
non sembra essere lasciato nulla: il Sole governa il ritmo delle stagioni, ma
prima ancora rende possibile la vita stessa. La Luna muove i mari, e sommuove
gli umori.
Segni di segni. Dice Adso:
Un
segno: in un punto e in un momento di questo Universo si colloca la nascita di
ogni individuo, in un preciso momento di configurazione astrale.
Un
altro segno: nel mezzo del cammin di
nostra vita, Urano Signore del cambiamento, dell’impazienza, della
necessità di ri-pensare e ri-vedere, si pone in opposizione all’Urano di
nascita, fra i 38 e 45 anni.
Ancora
un segno: non si esce dalla crisi senza un aiuto, un aiutante, come ben ci
insegnavano una volta le fiabe di magie: l’eroe nel pieno della crisi, riceve
un aiuto o incontra un aiutante.
E
ancora un altro segno: Dante riceve l’aiuto di un messo celeste, velocissimo
che ha in mano una verghetta, molta critica dantesca vi ha letto il veloce
Mercurio con il caduceo, il pianeta più veloce e più vicino al Sole.
Segni di segni…mentre canuto senesco come il mondo…
…mentre canuto senesco come il
mondo…appunto il mio sguardo, sfoglio i miei classici. Plotino[30] nelle Enneadi aveva
scritto…il fatto di venire al mondo, di
entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal
luogo, è in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra
vita: che tutti gli eventi formino una unità e siano intessuti assieme è
espresso dalle Moire…e prendo a prestito dalla scrittrice inglese Mary
Renault[31] la spiegazione delle
Moire…la forma compiuta del nostro
destino, i suoi contorni. Il compito che gli dei ci assegnano e la porzione di
gloria che ci consentono; i limiti che non dobbiamo oltrepassare e la fine
stabilita per noi. Queste sono le Moire. Moira è tutte queste cose. Dall’antichità
più lontana, dai Veda degli Arii, patrimonio poi degli Induisti, dai Sumeri,
dai Babilonesi, dagli Egizi, e passando dai Greci e dai Romani per giungere
fino ad oggi, un solo strumento è stato inventato per cercare di comprendere il
senso della vita, per tentare di
delineare i contorni della forma compiuta del destino, l’astrologia. Non quella
che indovini da quattro spiccioli praticano per vedere il futuro, ma quella di chi
si piega sulla carta del cielo per capire…il
compito che gli dei ci assegnano…o per dirla con Jung per comprendere l’essenza
che incarniamo…in ultima analisi, noi
contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la
realizziamo, la vita è sprecata. Certamente non tutte le crisi potranno
essere evitate, ma forse potranno essere utilizzate per rimettersi in cammino per individuare un itinerarium. Ma allora temet nosce conosci te stesso, è ancora
il punto di partenza.
Sapere
non è cedere al destino la nostra esistenza, piuttosto direi è interagire con
esso. Moira va inteso nel suo
profondo essere indicativo di una condizione psicologica; il nome deriva dalla
radice indoeuropea smmer o mer, ponderare, pensare, meditare,
considerare, curare, aver cura. Come scrive James Hillman[32]…è un termine profondamente psicologico, in quanto ci chiede di
analizzare da vicino gli eventi per determinare quale porzione viene
dall’esterno ed è inspiegabile e quale mi appartiene, attiene a ciò che ho
fatto io, avrei potuto fare, posso ancora fare…il fato non mi solleva dalla
responsabilità, anzi me ne richiede molta di più.
Ho
posto tanti interrogativi, forse a nessuno ho risposto compiutamente, ma almeno
una certezza la propongo: alla domanda su cosa abbia scatenato una crisi deve
necessariamente seguirne un’altra, qual è il fine? Interpretare il destino che
conduce alla crisi non può esimersi dalla ricerca del senso dell’esistenza
stessa.
[1] Convivio IV, XXIII, 6-10.
[2] Corinzi 2, 5, 6-7. Il passo completo è…pieni,
dunque, sempre di coraggio e consapevoli che mentre viviamo nel corpo siamo
pellegrini lungi dal Signore, camminiamo, infatti, nella fede e non nella
visione, siamo pieni di coraggio e preferiamo uscire da questo corpo per andare
presso il Signore.
[3] Convivio, IV, XXIV, 12…È
dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in una cittade,
non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l’hae usata; così
l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe
tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Nè lo
mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però fu a
questa etade necessaria la obedienza.
[4] San Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente in Dio, Edizioni
La Verna, 1963.
[5] Muovendo
dal pensiero di Sant’Agostino,
che parte dalla conoscenza della propria realtà umana e dall’interiorità del
proprio spirito per elevarsi alla conoscenza e all’amore di Dio, San Bonaventura,
nell’opera scritta nel 1259, indica le tappe di questo andare verso Dio:
vederlo attraverso le vestigia che di lui si trovano nel creato (per vestigium),
avvicinarlo penetrando nell’intimo di queste vestigia (in vestigio),
guardarlo riflesso in noi (per imaginem) e scoprire il suo volto al fondo della
nostra anima (in
imagine); elevarsi poi allo stato di estasi, dove i suoi lineamenti
s’illuminano di chiarezza e dove cessa ogni conoscenza discorsiva e la mente si
fissa in una dotta ignoranza; di qui l’anima, con un ultimo balzo, si unisce a
Dio nella sua contemplazione, mentre la parte più pura della mente avverte il
flusso incessante della grazia di Dio. L’opera è considerata fra le più alte
della mistica medievale.
[6] Inferno I, 10-12.
[7] A questo proposito è di
particolare interesse la lettura di Thorwald Dethlefsen e Rüdiguer Dahlke, Malattia e destino, Edizioni Mediterranee,
1986.
[8] Il Sonno, figlio di Erebo e
della Notte, fratello della Morte e padre dei Sogni. I poeti gli prestarono le
ali, pure immaginandolo addormentato nel paese dei Cimmerii, infondo ad una
oscura caverna, al piè della quale scorreva il lento fiume dell’Oblìo. Così il
Sonno nella descrizione comunemente fornita della tradizione greca, ma se
andiamo un poco più nel dettaglio possiamo scoprire che il Sonno aveva molti
fratelli, tutti nati dall’unione di Erebo e la Notte, e per la precisione il
Fato, la Vecchiaia, la Morte, l’Assassinio, la Continenza, i Sogni, la
Discordia, la Miseria, l’Ira, la Nemesi, la Gioia, L’Amicizia, la Pietà, le tre
Moire e le tre Esperidi.
[9] Mi piace riportare qui
un’antica leggenda orientale…Molto tempo
fa, si narra, viveva nella terra di Isfahan un giovane che trascorreva la sua
vita a far da servo a un ricco mercante. Un bel mattino il giovane si recò al
mercato, spensierato e con la scarsella tintinnante di monete provenienti dal
forziere del mercante, per acquistare della carne, frutta e vino; ma, giunto al
mercato, vide la Morte, che si girò verso di lui come se volesse parlargli.
Preso dal terrore, il giovane girò il cavallo e scappò via, prendendo la strada
che portava a Samara. Sul far della notte, impolverato ed esausto, capitò in
una locanda; fattasi dare una stanza pagandola col danaro del mercante, si
gettò sul letto in preda alla stanchezza, e tuttavia sollevato dal fatto che – a
quanto pareva – era sfuggito alla Morte. Ma nel cuore della notte sentì bussare
alla porta della stanza, e nel vano della porta vide profilarsi la Morte, che
gli sorrise affabilmente. «Come hai fatto a venire fin qui?», le domandò allora
il giovane, fattosi pallido e tremante: «Stamane, quando ti ho vista, eri nel
mercato a Isfahan». E la Morte rispose: «Sono venuta perché dovevo
raggiungerti, così come è scritto. Infatti, quando ti ho visto stamane nel
mercato di Isfahan, ho cercato di dirti che noi due avevamo un appuntamento
stasera, a Samara. Ma tu non mi hai lasciato parlare, e sei subito fuggito».
[10] La tragedia ci racconta che un oracolo aveva predetto a Laio, Re di
Tebe, e a sua moglie Giocasta, che se essi avessero avuto un figlio, questi
avrebbe ucciso il padre e sposato la propria madre. Quando nacque Edipo,
Giocasta decise di sfuggire alla predizione dell’oracolo, uccidendo il neonato.
Ella consegnò Edipo a un pastore, perché lo abbandonasse nei boschi con i piedi
legati e lo lasciasse morire. Ma il pastore, mosso a pietà per il bambino, lo
consegnò a un uomo che era a servizio del Re di Corinto, il quale a sua volta
lo consegnò al padrone. Il Re adotta il bambino e il giovane principe cresce a
Corinto senza sapere di non essere il vero figlio del Re di Corinto. Gli viene
predetto dall’oracolo di Delfi che è suo destino uccidere il proprio padre e
sposare la propria madre e decide quindi di evitare questa sorte non ritornando
più dai suoi presunti genitori. Tornando a Delfi egli ha una violenta lite con
un vecchio che viaggia su un carro, perde il controllo e uccide l’uomo e il suo
servo senza sapere di aver ucciso suo padre, il Re di Tebe. Le sue
peregrinazioni lo conducono a Tebe. In questa città la Sfinge divora i
giovinetti e le giovinette del luogo e non cesserà finché qualcuno non avrà
trovato la soluzione dell’enigma che essa propone. L’enigma dice: «Che cos’è che dapprima cammina su quattro, poi su due e infine su tre?» La città di Tebe ha promesso
che chiunque lo risolva e liberi la città dalla Sfinge sarà fatto Re e gli sarà
data in sposa la vedova di Laio. Edipo tenta la sorte. Trova la soluzione
all’enigma cioè l’uomo che da bambino cammina su quattro gambe, da adulto su
due e da vecchio su tre (col bastone). La Sfinge si getta in mare urlando, Tebe
è salvata dalla calamità, Edipo diviene Re e sposa Giocasta, sua madre. Dopo
che Edipo ha regnato felicemente per un certo tempo, la città viene decimata
dalla peste che uccide molti cittadini. L’indovino Tiresia rivela che l’epidemia
è la punizione del duplice delitto commesso da Edipo, parricidio e incesto.
Edipo, dopo aver disperatamente tentato di ignorare la verità, si acceca quando
è costretto a vederla e Giocasta si toglie la vita. La tragedia termina nel
punto in cui Edipo ha pagato il fio di un delitto che ha commesso a sua
insaputa, nonostante i suoi consapevoli sforzi per evitarlo.
[11] Albert Camus, La peste, Editions Gallimard, 1947,
prima edizione italiana Bompiani, 1948.
[12] Hannah Arendt, La banalità del male, Eichmann a
Gerusalemme. Il titolo originale era Eichmann
in Jerusalem, 1963; la traduzione per i tipi di Feltrinelli uscì in
italiano l’anno successivo.
[13] Barbara Spinelli, «La
crisi come occasione», in La Stampa, domenica 7 dicembre 2008.
[14] Franco Montanari, Ivan
Garofalo, Daniela Maletti, Vocabolario
della lingua greca, Loescher Editore, 1993.
[15] Karl
Ernst Georges,
Ferruccio Calonghi, Dizionario della
lingua latina, Rosenberg & Sellier, Torino, 1927.
[16] Howard Sasportas, Gli dei del cambiamento, Casa Editrice Astrolabio,
Roma, 2000. Nell’introduzione, riportando il concetto di “crisi” nella lingua
cinese, dice che…è reso con un vocabolo
ricco di saggezza, wei-chi, una combinazione di due parole, pericolo (wei) e
opportunità (chi) [pag.5]. La traduttrice Alessandra Vita, in un articolo del
2014, ha sostenuto che questa lettura sia impropria…Infatti, il carattere cinese “crisi” (wēijī) è
composto da due sillabe scritte ognuna con un carattere diverso, wēi (危) e jī
(機/机)…la
sillaba jī di wēijī non significa
affatto “opportunità”, ma “momento cruciale”, ossia ‘quando comincia o
cambia qualcosa’.
[17] Eschilo, Prometeo, 96-104.
[18] Franz Kafka, Il processo, 1925.
[19] Per esempio, ecco una
classica storiella psichiatrica. Un uomo è convinto di essere morto. Dice ai
familiari: «Sono morto» e i familiari lo mandano da uno specialista. Subito tra
medico e paziente incomincia un’accanita discussione. Il medico fa appello ai
sentimenti dell’uomo verso la vita, verso la famiglia. Poi prova a farlo
ragionare, dimostrandogli l’intrinseca contraddizione di una frase come «Sono
morto»: i morti non sono in grado di dire che sono morti, perché è appunto in
questo che consiste l’essere morti. Alla fine il medico ricorre all’evidenza
dei sensi. Domanda all’uomo: «I morti sanguinano?». «Certo che no» risponde
l’uomo, spazientito dall’ottusa dabbenaggine della mente dei medici. «Lo sanno
tutti che i morti non sanguinano». Al che il medico gli punge un dito. Ne esce
una goccia di sangue. «Ma guarda un po’, chi l’avrebbe mai detto» esclama
l’uomo. «I morti sanguinano, eccome». Cfr. James Hillman, La vana fuga dagli dei, Adelphi Edizioni, 1991, pag. 18.
[20] Inferno II, 127-142.
[21] Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, 1980, pag.
19.
[22] Inferno VIII, 100-102.
[23] La tragedia di Antigone è
la conseguenza di quanto è rimasto di irrisolto nella vicenda di Edipo.
[24] Viktor Emil Frankl
(Vienna, 26 marzo 1905 – Vienna, 2 settembre 1997) è stato un neurologo,
psichiatra e filosofo austriaco, uno fra i fondatori dell’analisi esistenziale
e della logoterapia. Il metodo di Frankl è considerato come il terzo metodo della scuola viennese (dopo
quelli di Sigmund Freud e Alfred Adler).
[25] Homo patiens. Soffrire con dignità.
[26] Ibidem.
[27] È interessante che Frankl
usi la stessa espressione di Dante…Fu in quel periodo che mi scossi finalmente
dal sonno, mi destai dallo psicologismo. Ero infatti stato illuminato dalla
stella di Max Scheler, la cui opera Il formalismo nell’etica materiale dei valori portavo
sempre con me come una Bibbia. Cfr. Viktor Emil Frankl, Fondamenti
psicopedagogici dell’analisi esistenziale,
Carocci Editore, 2012, pag. 26.
[28] Liz Greene (Englewood, 4
settembre 1946) è una psicologa britannica di origine statunitense. Figura di spicco dell’astrologia
contemporanea, ha conseguito un dottorato in psicologia ed è analista
junghiana; ha inoltre un diploma presso il Centre for Transpersonal Psychology di Londra
e presso la Faculty of
Astrological Studies. Fonda nel 1983 il Centre for Psychological Astrology di
Londra, tuttora da lei diretto, insieme ad Howard Sasportas.
[29] Suggerisco il testo di Liz
Greene, Astrologia e destino, Armenia
Edizioni, 1995, che affronta con molta accuratezza questa tematica.
[30] Plotino (Licopoli, 203/205 – Campania, 270)
è stato un filosofo greco antico. Erede di Platone e padre
del neoplatonismo, è considerato uno dei più importanti filosofi dell’antichità.
[31] Mary Renault (Londra, 4
settembre 1905 – Città del Capo, 13 dicembre 1983) è
stata una scrittrice britannica, nota principalmente per i
suoi romanzi storici di ambientazione classica. In particolare ha
dedicato tre romanzi e una biografia alla figura di Alessandro Magno.
[32] James Hillman (Atlantic City, 12
aprile 1926 –Thompson, 27 ottobre 2011) è stato uno
psicologo, psicoanalista junghiano, saggista e filosofo statunitense.
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