L’imprevisto ci offre scenari inimmaginabili persino alla fantasia: mi soffermo sulle immagini del papa in solitudine orante per la nuova peste. Un regista di superba levatura ha organizzato con sapiente profondità ogni fotogramma: il papa sale claudicante una gradinata in uno scenario storico, che colpisce ormai l’immaginario collettivo, non lo fa uscire dal portale della stupenda basilica, no, lo fa arrivare da un luogo esterno, lo fa scendere e lo vede da dietro, faticoso nell’andare, risalire fino al centro della prospettiva; il tutto sotto l’abilissima attenzione di un tecnico delle luci, che lo ripropone come in un film di fantascienza, un poco di pioggia in più e si poteva rievocare una scena di Blade runner, un’intuizione che ha preso lo stomaco e il cuore degli spettatori; genialità di chi fa ancora un cinema che valga la pena di essere visto.
Abbiamo tutti bisogno di commuoverci, di piangere, di esorcizzare i molteplici dolori che trascorrono nella nostra esistenza, proiettandoli in un altrove che è lo spettacolo; i Greci furono maestri in questa operazione, e nella tragedia risolvevano l’angoscia dello spettatore, che non era più solo, perché la tragedia è ecumenica, riguarda tutti, ognuno di noi vi si rivede e proietta il suo male di vivere, e lo condivide, necessariamente, perché nella condivisione si perde l’unicità e la solitudine, ognuno sente di essere “ sulla stessa barca” di tanti altri, condivide e fraziona il suo male.
Per eccellenza, il Cristianesimo è ecumenico, partecipato universalmente.
Quel papa solo, con un anziano chierichetto poco distante, è la dolorosa firma di un cristianesimo morto, finito. Nella faticosa e solitaria ascesa su quel lastrico secolare, simbolo unico, si è segnata la fine non tanto di un’epoca, quanto di un’era. Quello stesso papa che ha provato a diluire i contenuti dell’essenza stessa del cristianesimo, che ha via via soppresso i suoi riti e la sua liturgia, consapevole, o forse no, che il rito è l’espressione stessa del mistero e della sacralità, tardivamente, ben guidato da un cast stellare di cinematografia, ha segnato velocemente la fine del suo percorso, del percorso dell’ecumene ecclesiastico, della chiesa, del cristianesimo, almeno quello che da tempo si vorrebbe che sia.
In quella solitudine di una ritualità, che privata dell’ecumene, è scenografia ripetitiva, pur commovente e assai dolorosa, si segna lo spartiacque di un’era: nel silenzio di chiese vuote e persino chiuse ai fedeli, quando si mantengono nelle loro funzioni le tabaccherie e le vendite di quotidiani, che chiunque può leggere su un monitor tranquillamente seduto a casa, si era già segnata una fine dolorosa dell’Occidente europeo, perché, che piaccia o non, l’Europa ha una sua identità unica, nel riconoscersi nel Cristianesimo. Aveva avvertito con grande lungimiranza Benedetto XVI che l’Europa ha un unico denominatore, e se il relativismo contemporaneo lo nega, è l’Europa stessa ad essere negata.
C’è un’immagine soprattutto che emerge: il Cristo a lato, di spalle, il papa poco lontano e infine la piazza vuota.
Mi sono sentito appena dietro a quel Cristo appeso, portatore di una storia di confine, dietro con tutto il popolo ebraico, dal quale lui proveniva, lui chiamato ad essere confine, fra un credo e un altro, e imago dolorosa di un credo che tenta di fagocitarne un altro, e nella distanza fra questo simbolo di pace e di dolore, di unione per gli uni e di morte per gli altri, con il papa, era come se si dispiegasse la storia della Chiesa, millenaria, nello scenario che più di ogni altro la identifica, nella grandezza, nella bellezza, nella potenza, e infine il vuoto umido crepuscolare, il nulla scuro del futuro.
Un invisibile nemico ha vanificato la religione intesa nel modo acquiescente, adattata alle necessità, preda della fretta e della materialità. Il papa dice che …ci possiamo salvare solo insieme…, lo dice ad un mondo che dell’individualità, dell’intimità, dell’egotico vivere, ha fatto una regola, ad un mondo che ha negato la complessità della famiglia, che ha dato libero sfogo ai bisogni individuali, al bisogno di sicurezza, che ha fomentato persino la paura di riprodursi, che ha fondato sull’avere materiale ogni altro valore, che ha sollecitato la competizione oltre il sopportabile, che ha fabbricato nel suo percorso la solitudine dei corpi prima ancora che delle anime. In questa dichiarazione il papa certifica che il mondo in cui siamo vissuti e in cui abbiamo creduto, è alle corde. Era già prima deteriorato, il nemico invisibile ne ha solo certificato il deterioramento ultimo.
La disperazione della solitudine, oggi ratificata da severe norme, era già ben prima di questo nemico invisibile, era dentro la maggioranza delle genti dell’Occidente, che si sono illuse di non essere sole nella condivisione dell’aperitivo, della discoteca, del pub, dei luoghi carnali di incontro. Illusione! Oggi certificata dalla chiusura dei bar, del locale dove sfogare la carnalità, dei luoghi di ristoro, solo apparentemente epifania della condivisione. Tutto fuori dalle mure domestiche, la vera vita spinta nell'agorà, nell'immensa piazza del mondo.
Così ora torniamo a casa, a far da mangiare, nella solitudine, e ci mettiamo in scena sui social, perpetuando l’illusione che i vari simboli di apprezzamento degli altri, attenuino il nostro isolamento, che è metafora meno amara della parola solitudine; e non ci rendiamo neppure conto che più mettiamo in scena la scenetta del bravo cuoco più ancora potremmo offendere chi quella scenetta non la può praticare, perché la fatica del vivere gli impone ben altre regole, persino imposte dall’indigenza. Le scenette non sono rispettose degli altri perché sono manifestazione egotica dell’illusione di avere un consenso, di avere un pubblico, di essere visti, perché se nessuno “ti vede” diventi invisibile, che è ancora peggiore della solitudine.
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