Mi piace riproporre oggi, in questa particolare condizione di paura generalizzata, quanto ebbi a dire nella conferenza conclusiva di un ciclo di incontri con un carissimo gruppo di allievi intorno agli aspetti emozionali della malattia. Avevo scelto di concludere con l'emozione della paura, emozione con la quale tutti oggi stiamo facendo i conti.
Sarà il mio passato da letterato, ma mi piace sempre partire dall’etimo di una parola, per comprenderne i significati che, nel corso dell’evoluzione del tempo e dei popoli, può avere assunto.
Il verbo paveo indicava un’emozione: paventes ad omnia…essere spaventati per ogni cosa, incerto vultu pavens…spaventato e con il volto sbigottito; ma più estesamente paveo lo troviamo anche con il significato di non avere il coraggio di, id paves ne ducam tu illam…non aver il coraggio di sposarla, hai paura di doverla sposare. Il verbo era esplicativo di paure immotivate, di paure di dover fare qualcosa, essere costretti a...di dover subire qualcosa e per l’uomo latino lo spavento si vedeva in volto…incerto vultu.
Il verbo pavito indicava l’azione che si produce quando si prova un certo tipo di emozione, si trema perché si ha paura, si trema per l’ansia. Le espressioni legate alla paura sono molteplici e ne facciamo un esempio.
Si prova paura: pavor omnes occupavi…la paura colse tutti.
Si induce paura: pavorem alicui inicere…incutere paura a qualcuno.
Si ha paura di qualcosa reale: pavor aquae…paura dell’acqua, idrofobia.
Si ha timore immotivato: falsos pavores induerat…soggiaceva a paure immotivate.
Si finge la paura: pavore ficto sententias iudicium opperiebatur…stava in attesa, con ansia simulata, del verdetto dei giudici.
Si manifesta la paura: pavitante gressu…incedere tremolante.
Cicerone, come sempre, ci dà una mano per comprendere ancor meglio il significato di questa parola pavorem metum mentem loco moventem definiunt…si definisce lo spavento (o la paura) un timore che turba lo stato mentale.
Direi che Cicerone avesse già in mente la relazione esplicitata dagli studi su gli aspetti emozionali. Cicerone aveva in mente anche il greco pa-io percuoto, urto, e anche il verbo pte-sso, cado nel terrore, cioè…percosso e urtato, cado…
La paura infatti percuote, induce tremito, abbatte, fa cadere nel terrore; abbatte moralmente, emotivamente, ma anche fa cadere realmente a terra, pavitum…pavimento, ha la medesima radice di paveo e di pavor. E il verbo pavimento, as, avi, atum, are…spianare, battere, di lì viene, e il verbo pavio, is, pavii itum ire è propriamente usato da Cicerone con il significato di percuotere, e il derivato pavitatio indica tanto lo scuotimento della terra sotto i piedi, quanto il tremito che pervade il corpo.
Pavor, paor, peur il lemma transita così dal latino attraverso la lingua d’oc nel francese, e di lì ritorna nel nostro volgare con il termine paura. Nel passaggio lungo i secoli le sfumature si arricchiscono. Nel Du Cange, il più importante dizionario del latino volgare, Pavor, Peur, significa forte movimento dell’animo con turbamento dei sensi, per cui l’uomo è eccitato a fuggire un oggetto, che a lui pare nocivo.
Sottolineo il legame fra movimento dell’animo con turbamento dei sensi e anche la definizione di fuggire da un oggetto che appare nocivo, sulla quale avremo modo di tornare perché la paura è sempre legata alla sensazione di qualcosa di nocivo che ci può capitare, anche se talvolta non è facilmente identificabile.
Paura infatti è tanto paura di qualcosa che realmente può capitare ed essere nociva, come la paura di cadere, la paura di essere derubati o aggrediti, la paura del terremoto, ecc., e anche di qualche cosa che invece, soggettivamente, è avvertito come possibilmente nocivo; anche se talvolta, come avremo modo di chiarire meglio, è oggetto di desiderio, come ad esempio paura di amare, di mostrare il nostro desiderio sessuale, paura di non essere amati, di essere abbandonati o paura di qualcosa che ci può mettere in una condizione spiacevole, come il timore del giudizio degli altri, che può diventare vera e propria paura inibente.
Già dunque dal mondo classico e medievale perviene questa doppia lettura della medesima parola, paura di qualche cosa di oggettivo, paura di qualche cosa che si agita dentro di noi (peraltro sappiamo quante volte le paure che si agitano dentro di noi vengano proiettate sul mondo circostante). E nel contempo perviene l’idea che la paura si manifesta nel corpo.
Soffermiamoci allora in quell’età di transizione fra la Lingua Latina e il Volgare e accostiamoci ad un monumento della cultura medievale, ovvero alla Divina Commedia; soffermiamoci sulle prime due terzine:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
che la dritta via era smarrita
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
Esta selva selvaggia e aspra e forte
Che nel pensier rinova la paura!
[Inferno I, 1-6]
Abbiamo qui alcuni elementi utili per quanto attiene la nostra riflessione sulla paura: la paura è legata al buio (la paura del buio non sempre è patologica, soprattutto nei bambini, ma lo può diventare negli adulti), legata alla perdita dell’orientamento, che nell’allegoria dantesca è orientamento della mente-spirito e dunque si ribadisce l’idea del disordine mentale che materialmente diviene disordine fisico; Dante acqueta la sua paura quando esce dalla valle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte che ‘i’ passai con tanta pieta.
[Inferno I, 18-21]
In questa terzina Dante aggiunge qualche cosa per la nostra indagine, ovvero che la paura alberga nel cuore, ribadendo ancora che emozioni e corpo sono strettamente collegati. Potrei aggiungere che tutto l’Inferno è un catalogo di come il disagio della mente divenga disagio nel corpo, che davvero è la manifestazione fisica della mente; per converso il Paradiso dove i corpi sono scomparsi è la manifestazione della purezza della mente, ormai priva delle sue discordie intestine.
Boccaccio, una generazione dopo Dante, proprio nel commento all’Inferno aggiunge…è nel cuore una parte concava, sempre abbondante di sangue, ne la quale, secondo alcuni, abitano gli spiriti vitali…ed è quella parte ricettacolo d’ogni nostra passione. La paura è dunque qualcosa di fisico o qualcosa che diviene fisico: è un liquido o diviene liquido che si raccoglie nel cuore, inteso come contenitore; non si deve dimenticare in questo caso l’immensa simbologia, soprattutto nel medioevo, legata al cuore, di cui Dante è, ancora una volta, un intero catalogo (cuore amor gentile, ecc.).
Proseguendo nella lettura, abbiamo un’ulteriore indicazione:
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
[Inferno I, 22-27]
Nella similitudine che Dante propone, si evidenzia che è l’animo a rimanere ancorato all’emozione (l’animo mio, ch’ancor fuggiva) e viene paragonato a qualcuno che stava per annegare, per perdere la vita nell’acqua: l’animo in preda ad un’emozione, la paura in questo caso, viene personificato, e, credo, che non si tratti di una similitudine con solo valore poetico, ma esprima, nello stile del tempo, ed anche nella mentalità del tempo, l’idea molto precisa che le emozioni si trasfigurano nel comportamento fisico…si calassero nel corpo, come secoli appresso diranno Dethlefsen e Dahlke.
Volevo, con questa carrellata e con l’esempio tratto da Dante, semplicemente indicare come l’emozione della paura - forse più di altre emozioni, ma per l’emozione dell’amore il discorso è veramente lo stesso - fin dagli albori della lingua e quindi della capacità di dar nome alle cose, la paura sia una condizione che lega strettamente stati dell’animo, dove l’emozione si manifesta, a particolari condizioni del corpo; c’è dunque uno stretto legame fra mente e corpo, già ben identificato fin dagli albori del linguaggio, del dar nome alle cose, opera di fondamentale importanza per la conoscenza e per la coscienza.
Possiamo dare allora una definizione di paura.
Per paura alcuni intendono un’emozione istintuale, non immediatamente controllabile, che irrompe quando si manifesti un alcunché che genera la percezione di qualcosa di nocivo per la nostra incolumità, fisica e non. Eppure forse non è soltanto questo o non è esattamente questo, almeno così mi pare se andiamo a sfrucugliare nei liberi più antichi dell’Occidente?
“…Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” [Genesi 3,10].
Evidentemente non siamo di fronte ad un’emozione istintuale, non immediatamente controllabile, che irrompe quando si manifesti un alcunché che genera la percezione di qualcosa di nocivo per la nostra incolumità fisica.
Siamo di fronte a ciò che è paura di qualcosa che non è fisico: la percezione di una condizione dalla quale bisogna nascondersi, cioè la vergogna della nudità, e quindi del giudizio che ne può conseguire.
Vorrei soffermarmi attentamente su questo rapporto, paura/vergogna/timore del giudizio degli altri, paura di apparire per quello che si è, sul quale si fonda tanta parte della filosofia interpretativa della cosiddetta medicina emozionale.
Tante patologie si originano dalla paura di apparire così come si è; esattamente come Adamo nudo davanti a Dio si trova a fare i conti con chi sia davvero, senza nessuna possibilità di infingimento.
Trovo non casuale che la vergogna e la paura del giudizio dell’altro, nonché la paura di non essere all’altezza di una situazione (Adamo con il peccato diventa consapevole dei limiti rispetto allo stato precedente), siano posti all’inizio della Bibbia e all’inizio del rapporto con la divinità. Peraltro anche all’inizio della storia, così come noi intendiamo la nostra storia, nella cultura vedica abbiamo la medesima emozione…Egli [Purusha] ebbe paura: perché colui che è solo ha paura. Indi considerò: “Di che cosa debbo io avere paura, se nulla esiste fuori di me?”. Allora la sua paura svanì. Di che cosa infatti avrebbe dovuto avere paura? Si ha paura di un altro. Oppure si ha paura della solitudine?
La paura della solitudine della deità è tuttavia singolare, anche se questa paura serpeggia nel prima della Creazione nella tradizione monoteista. Jahvè, come Purusha, sembra aver bisogno di compagnia e, come Purusha, crea.
La Creazione, manifestazione di Purusha o manifestazione di Jahvè, è altro.
Nelle Upanishad è interessante il passaggio all’interno della mente di Purusha che, consapevole della sua paura della solitudine, si domanda come mai abbia paura se non c’è nulla al di fuori di lui: la paura della solitudine è vanificata dalla consapevolezza che la paura viene solo da fuori, perché si ha paura soltanto di un altro fuori da sé.
È singolare che la divinità provi l’emozione della paura e solo attraverso un intervento razionale comprenda che non ha ragione di aver paura, ma a questo punto appare ancor più singolare che quando realizza che la paura viene da altro da sé, proceda alla creazione, che è proprio l’altro da sé. Non si sopporta la solitudine, meglio aver paura di qualcos’altro? Come se si volesse insinuare che la solitudine è una dimensione impalpabile, indefinibile, e quindi difficilmente collocabile e controllabile, meglio così avere altro davanti a sé, almeno questo altro ha forme definite, con cui confrontarsi.
Alla stessa stregua Jahvè crea l’uomo e gli crea poi una compagnia, perché anche il suo individuo creato non si senta solo, o immagina che lui lo sia o potrebbe sentirsi solo…non è bene che l’uomo sia solo [Genesi 2,18] e conseguenzialmente li mette nella condizione di essere tentati.
È interessante osservare come la paura della solitudine sia all’origine da una parte della creazione e dall’altra dell’umanità, e questo ci dice quanto la paura della solitudine debba aver agito nella cultura più antica della razza umana. Ma è ancor più singolare che la paura della solitudine sia strettamente collegata alla paura dell’altro in una cultura e alla vergogna nell’altra cultura.
Paura della solitudine e vergogna sono tuttora emozioni che agiscono profondamente nella nostra civiltà. Noi dobbiamo tenere presente che molte paure sono state legate alle diverse fasi della storia dell’umanità, la paura della fame e della carestia non appartengono più alla società occidentale, la paura della peste ha connotato precisi periodi storici, la paura dell’anno mille ha caratterizzato un’epoca, ma dobbiamo anche tenere presente che tante paure travalicano indenni società ed epoche diverse, assumendo colorazioni differenti, ma permanendo all’interno degli uomini.
L’umanità è stata governata dalla paura, fin dalla sua origine: paura della fame, paura delle malattie, paura di eventi climatici incontrollabili, paure collettive incontrollabili (paura dell’anno mille) e paure legate a ciò che diverge dalla norma, paura dello straniero per esempio.
Nel corso del tempo l’umanità ha elaborato rituali collettivi finalizzati a esorcizzare la paura e si è data delle regole entro le quali tenere sotto controllo le paure individuali; i rituali di buon auspicio, primaverili o autunnali, i rituali legati alla rinascita del sole, sono un esempio di questa modalità di affrontare insieme, collettivamente, i cambiamenti e per sostenersi l’un l’altro nell’evento incombente.
Nel corso del tempo si è imparato anche a sdrammatizzare certe paure; per esempio, la lettura delle fiabe di magia aiutava i bambini, attraverso l’esperienza fantastica, a elaborare un percorso esistenziale all’interno del quale si annidano molti pericoli, a cominciare dall’abbandono e dall’orfanilità, ma dai quali - indica la favola - si può uscire.
I riti e le fiabe in realtà hanno la funzione di esorcizzare la paura, aiutando a sperimentare la possibilità di sopravvivenza ed anche vanificando la solitudine. Ancora oggi il rito collettivo, sia pure in forme molto diverse, partecipando per esempio al medesimo evento sportivo, ci consente di percepire gli altri intorno a noi, e quindi di non percepire la solitudine, di sentirsi parte di un insieme.
In effetti la paura della solitudine è ancora oggi elemento connotativo della nostra società, ed è nella sua manifestazione più profonda alla base della depressione.
La vergogna ugualmente trova nel rito collettivo la sua esorcizzazione, chiedendo però a tutti di rispettare le stesse regole; questo ha storicamente comportato il percepire alcune emozioni come divergenti dalle regole rituali per le quali individualmente si prova vergogna.
Se la solitudine dunque può trovare nell’evento collettivo la sua pacificazione, non così la vergogna, perché l’individuo può vivere emozioni che in quel momento non sono sintoniche con il resto del gruppo.
Con questo voglio semplicemente dire che la paura della solitudine trova nell’altro la sua compensazione, mentre la vergogna può trovare la sua ragion d’essere nell’altro.
Tuttavia negli ultimi decenni e quindi nelle ultime generazioni, l’umanità ha perduto il contatto sia con il rito sia con il simbolo (fiaba di magia); i riti contemporanei sono occasionali e spesso, come nel caso della comune partecipazione al rito del calcio, evento che scatena le diversità più che aggregare tutti nel comune sentire; non possiamo infatti immaginare, neppur lontanamente, che il rito della festa di Natale, che transita dall’età pagana al mondo cristiano e che coinvolge tutti nel medesimo sentimento di ripresa della vita, abbia la stessa valenza del rito del calcio domenicale che viene vissuto da differenti gruppi di tifosi gli uni opposti agli altri.
La perdita del rito, in particolare dei riti iniziatici, sta producendo generazioni, soprattutto di maschi, particolarmente in difficoltà nella gestione del loro ruolo nella vita, ma soprattutto genera la perdita di conoscenza del linguaggio simbolico, con l’accantonamento per esempio delle fiabe a favore delle storie di eroi giapponesi, il che non permette ai bambini l’elaborazione delle paure ancestrali.
Non è casuale che oggi si viva in un’epoca di grandi risorse tecnologiche, di grandi prospettive, di grande razionalità, e nel contempo si cada preda di incontrollabili paure individuali e collettive.
Vorrei precisare, a questo punto, che la paura, per certi aspetti, ha una sua funzione positiva, essendo un naturale meccanismo di difesa di cui l’uomo necessita. Vittorino Andreoli, uno dei più autorevoli psichiatri italiani, sostiene che…se un bambino non avesse paura del buio, potrebbe, volendo, sbattere contro qualche oggetto e ferirsi. Analogamente un cerbiatto che non avesse paura di un leone non scapperebbe e verrebbe eliminato. Vi è dunque una paura esistenziale che va mantenuta.
È peraltro vero, aggiungo io, che questa paura, pur necessaria, si trasferisce comunque in un comportamento emozionale, che si manifesta fisicamente: la paura del bambino si può infatti vedere ora nel suo pianto, ora nel suo pallore, ora nel tremito.
E dico questo perché non dobbiamo perdere di vista il filo conduttore di questa nostra conversazione e di tutte quelle che l’hanno preceduta, ovvero che l’emozione si riverbera nel corpo.
Stabilito che esiste questa paura e che si trasferisce in un comportamento fisicamente percepibile, è altrettanto vero che esistono paure che invece di proteggere ci rendono succubi e impotenti, diventando patologiche.
Andreoli continua…la paura diventa patologica quando si attiva senza che vi sia un pericolo reale o si esprime con un’intensità eccessiva sproporzionata allo stimolo. Si può arrivare fino alla paura della paura, quando un soggetto non riesce più a far nulla perché è spaventato dal fatto stesso di esistere.
Anche in questo caso a noi non interessa quanto diviene poi fobia, panico, per non dire follia; quel che a noi interessa è l’aspetto della paura variamente motivata, che si trasferisce nel corpo diventando nel tempo patologia.
Ansia, panico, fobia sono effettivamente diverse manifestazioni della paura, che possono esitare nella depressione o nella violenza - e per certi aspetti questo è un percorso abbastanza frequente nella nostra società - e rappresentano un modo di rispondere ad un disagio di star dentro alla società, e possono o non possono, accompagnarsi anche ad una serie di disturbi fisici.
Tuttavia esistono forme di paura più sotterranee, e, in qualche modo, vorrei chiamarle intime, che non esitano necessariamente in quelle forme patologiche, ma che tuttavia si trasferiscono nel corpo, manifestandosi con una patologia fisica, che può essere soggettivamente percepita come più o meno disturbante o diventare comunque inibente o ridurre la qualità della vita, spesso agendo nell’individuo in modo del tutto inconsapevole.
Facciamo un esempio: la paura di piacere, che è anche l’espressione di una paura legata alla sessualità, e che potremmo ascrivere al meccanismo che abbiamo indicato, ovvero di essere preda di una paura di non essere in linea con le regole della società nella quale viviamo, e quindi dare origine a vergogna o paura di non essere accettati per quello che si è o per quello che si prova, paura ancor oggi così frequente nell’adolescenza contemporanea, tanto che potremmo ascriverla a problema sociale, legata a forme di riconoscimento collettivo, può fermarsi a manifestazioni cutanee, come l’acne, o ad altre piccole patologie, senza necessariamente esitare in quelle manifestazioni che abbiamo chiamato ansia, panico o fobia.
È peraltro vero, che se questa paura si accompagna ad altre emozioni, come l’inadeguatezza, la paura dell’abbandono, la ferita del non essere amati, certamente può aggravarsi fino a diventare ansia, panico, fobia, ed esitare in forme patologiche come l’anoressia o la bulimia o malattie della pelle come la psoriasi, ben più fastidiose dell’acne.
Se questa paura assume una valenza tale da portare alla percezione dell’ambiente circostante come ostile, può esitare, se introiettata, nella chiusura totale e quindi nella depressione, oppure, se esteriorizzata, nella rabbia cieca e nella ribellione, sfociando nella violenza.
Non si può capire né la depressione né la violenza se non si capisce prima la paura che le sottende. Certe manifestazioni giovanili di rabbia incontrollata o sull’altro versante di estrema chiusura, sono, per lo più, manifestazione di una difficile accettazione delle regole imposte o delle difficoltà, che si prova nel tentare di accettare le regole e di adeguarsi ad esse.
La società oggi chiede agli adolescenti non poche capacità; spesso i genitori sono i primi a chiedere molto ai loro figli, sottomettendoli, in nome di una migliore accettazione da parte della società quando saranno diventati grandi, a un carico di fatica piuttosto elevato: ci sono le lezioni di inglese, il catechismo, lo sport, le feste con i coetanei, ecc., una macchina di lavoro che spesso stressa gli stessi genitori e per questa stessa ragione diventano esigenti; siccome fanno molta fatica, impegnano molto tempo, e spendono molti soldi, sono anche pronti a ricattare talvolta in modo inconsapevole e occulto i loro figli, che vivono un costante stress da prestazione e in realtà percepiscono di dover rispondere ad un modello che i genitori si aspettano da loro e che può non essere loro gradito, perché i figli vorrebbero altro, o lo percepiscono non raggiungibile; tutto questo genera ansia con tutte le conseguenze di paura di non essere adeguati, di non reggere la competizione, di essere abbandonati come punizione. Sull’altro versante ci sono i coetanei, che chiedono l’adeguamento alle regole del gruppo, che chiedono prestazioni che mostrino che si è diventati grandi, e anche questo può essere per chi ha ricevuto un’educazione in contrasto con il gruppo, o per chi è più fragile o più insicuro, fonte di paura di non essere accettati, di non essere all’altezza, e soprattutto nella fase adolescenziale di non essere amati, né dal gruppo, né dai genitori.
Quando parliamo di paura, intesa come qualche cosa che diviene patologia, stiamo parlando di paure molto mirate (paura di sporcarsi, paura di essere sporchi, paura di non essere all’altezza, paura di rimanere senza soldi, paura della malattia, paura della vecchiaia, paura della solitudine, paura dell’abbandono, paura di piacere, paura di non piacere, paura delle malattie, ecc.); quello che è interessante per noi, nell’analisi della paura, è che essa può motivarsi per motivi oggettivi o per motivi soggettivi; quel che interessa a noi, analizzando il tema della paura in relazione ad emozioni che diventano fisicamente patologia, sono le paure soggettive, che possono anche essere di tutti gli individui di una società, ma vissute da ognuno in modo differente, e soprattutto non legate ad eventi esterni e oggettivi.
Mi spiego meglio: la paura che aerei nemici possano penetrare nel nostro cielo e abbattere le torri gemelle è una paura soggettiva fino a quando non si oggettivizza. Fino a quando è soggettiva è fondamentalmente assimilabile alla paura dell’orco o della strega o della Baba Jaga; e ognuno si vive questa paura a modo suo, alla stessa stregua di come i bambini si vivono la paura del buio: chi ha reazioni normali (non dimentichiamo che è una paura utile), chi invece ha manifestazioni assolutamente patologiche. Nel momento in cui la paura si è oggettivata, si assiste, come abbiamo visto, all’elaborazione di risposte collettive, all’interno delle quali la più parte delle persone si tranquillizza: l’esasperato aumento di controlli alle frontiere e soprattutto negli aeroporti ha dato a tutti noi una qual certa sicurezza di poter continuare a muoverci, anche se alcuni scelgono di vivere lontano dalle città, per essere più sicuri, o si rivolgono allo psicologo per tranquillizzare la loro ansia.
Le paure soggettive comuni a tante persone si pongono al di là dell’evento oggettivabile, anche se talvolta possono originarsi a causa di un evento oggettivo; la paura dell’abbandono può certamente originarsi a causa di un abbandono subito in età infantile, ma può essere una paura legata ad interpretazioni soggettive, la cui origine si perde nella prima infanzia, laddove forse i genitori non hanno saputo securizzare sufficientemente il bambino, ma non per questo l’hanno abbandonato.
La paura di vivere la propria sessualità può certamente originarsi all’interno di un’educazione rigorosa, ma non necessariamente; la paura di restare senza soldi è diffusa tanto in chi di soldi ne ha pochi, quanto in chi ne ha a bizzeffe.
Tutto questo andar in giro per paure era semplicemente per indicare che all’interno delle paure soggettive, ogni soggetto se la vive a modo suo, in virtù di una complessità di esperienze, che sono la nostra stessa esistenza.
Ripercorriamo dall’inizio il filo del discorso, forse diremo qualcosa di già detto, ma ci aiuterà a scendere nel dettaglio.
Che cos’è la paura?
Mi avvalgo della definizione che ne dà Anna Oliverio Ferraris…la paura è un’emozione che colpisce in misura variabile ogni essere umano lasciando molto spesso tracce indelebili nella sua mente, tracce che possono riemergere in forma più o meno drammatica sia a livello cosciente che nei sogni.
Ribadisce quel che abbiamo fin qui detto in altre parole, ma sembra escludere quel che è invece propriamente l’ambito del nostro interesse, vale a dire, come ben abbiamo visto nei due cicli di lezioni precedenti, che la paura ha una terza collocazione che non è né quella cosciente, né quella trasferita simbolicamente nel sogno, ma è quella che si cala nel corpo concretizzandosi in un sintomo. Su questo aspetto la Oliverio Ferraris peraltro si sofferma successivamente, quando analizza le espressioni fisiche della paura, per cui non entro nella eventuale polemica, anche se nella successiva analisi da lei proposta avrò alcune cose da dire. La Oliverio Ferraris continua nella sua definizione dicendo che…la paura è un’emozione che può generare grossi problemi di adattamento e che in casi estremi può dare la morte alla persona che ne è vittima.
Anche in questo caso mi sembra che si faccia un’analisi tenendo presente l’adattamento, dimenticando che l’adattamento non è soltanto manifestazione psichica legata al modo di vivere il proprio ambiente e le relazioni interpersonali, ma l’adattamento è anche legato alla capacità fisica di viversi il proprio ambiente e le relazioni interpersonali; nell’analisi delle problematiche emozionali dell’apparato locomotore prendemmo in esame, fra tante altre cose, il problema della gobba, che dicemmo essere deformazione della colonna che costringe a guardare in basso verso terra, manifestazione di chi non ha saputo o voluto elevarsi, guardare in alto, affrontare i nodi della sua crescita; la paura dunque di mettersi in gioco nel processo evolutivo che volgarmente chiamiamo diventare grandi.
In questo caso, la paura è scesa nel corpo, nella quotidianità dell’esistenza, fino a piegarlo; il che non significa che non ci sia stata una qualche consapevolezza di questo processo, che coscientemente ci fa sentire incapaci di elevarci e affrontare i nodi della nostra esistenza, ma non significa neanche che ci sia stata, così come può essere che ci sia, una produzione onirica legata al sentimento di sudditanza. Ma, non è questo il punto: il punto è che una paura non elaborata, che si perpetua un giorno dopo l’altro, ha agito nella fisicità, si è calata nella materia, plasmandola. Vorrei aggiungere che una volta che si è prodotta la gobba, e questo vale per altre manifestazioni fisiche come la già citata acne, la manifestazione visibile della paura può incidere sull’adattamento ancor più di quanto non avesse inciso prima, per il semplice fatto che adesso, con la gobba o con l’acne poco importa, la difficoltà di adattamento si è fatta palese in modo più che evidente.
Prosegue ancora la nostra autrice…le fobie, che prendono origine da paure di cui molto spesso si è perduto il ricordo cosciente, possono bloccare il normale andamento della vita di una persona costringendola a limitazioni della propria libertà e a cerimoniali inutili dal punto di vista pratico, ma vissuti come rassicuranti ed essenziali al benessere fisico e psichico.
L’autrice si riferisce a quelle manifestazioni fobiche, che costringono le persone a seguire precisi rituali; ne è esempio il rituale, abbastanza innocuo, di chi deve, prima di coricarsi, controllare che tutte le finestre siano chiuse, che sia chiuso il rubinetto del gas, che sia spento ogni elettrodomestico, ecc. Ammesso che abbia una sua normalità procedere ad un controllo prima di abbandonarsi a Morfeo, a cui cediamo per qualche ora la nostra coscienza, è pur vero che spesso il rito costringe ad una liturgia precisa, per esempio che si deve procedere al controllo partendo sempre dallo stesso punto, oppure che si debba fare un ulteriore giro dopo averne appena concluso uno, oppure ancora avere la sensazione che malgrado si sia compiuto un controllo accuratissimo, ci sia sfuggito qualcosa.
Per quanto innocuo - in fondo non fa male a nessuno - questo rituale è comunque rivelatore di una paura; in questo caso la paura di essere sorpresi da malfattori, che potrebbero entrare dalle finestre o dalla porta, o di essere sopraffatti da un evento, che con un po’ di attenzione, avrebbe potuto essere evitato; se è vero che questa paura si risolve in una liturgia, che comprende un sorvegliare il confine e tutte le possibili aperture, è anche vero che essa ha, con grandissima probabilità, un riscontro fisico vero e proprio nel controllo delle aperture, provocando, se tutto va bene, ostinate stitichezze, ma la stessa paura può manifestarsi con fobie sul controllo del confine, che esitano per esempio nei rituali dei lavaggi ripetuti, fino ad avere vere e proprie dermatiti. In questo caso, anche se la fobia si ferma ad una ritualistica, è pur vero che ha certamente un riscontro fisico diretto (la stitichezza) o indotto (la dermatite), ma il risultato finale è un danno sul limitare del corpo.
Non ho mai riscontrato forme di questo tipo, fobie non particolarmente allarmanti, senza un sintomo fisico, che non fosse strettamente collegato a quella fobia.
Una fobia particolare è quella di compiere un gesto, prima di poterne compiere un altro; un nostro paziente non riusciva a rispondere a chicchessia senza toccarsi più e più volte la fronte e il viso per verificare che non avesse niente di estraneo appiccicato sopra. La stessa persona non aveva questa manifestazione se era lui per primo ad intervenire, cosa che peraltro, se non era strettamente necessario, non veniva messa in atto.
Questo tipo di fobia può creare ovviamente difficili rapporti interpersonali, e per questo il nostro paziente cercava di avere pochissime relazioni e, nel caso avesse dovuto affrontare degli incontri, ricorreva spesso ad un cicchetto prima di uscire di casa.
Le ragioni di questa paura sono molteplici e risalivano certamente ad un periodo infantile, quando erano emersi timori molto pronunciati a proposito della severità della madre, che non esitava a rimproverarlo duramente, soprattutto in presenza di terzi. In questo caso siamo di fronte ad un trasferimento della paura di non essere adeguati alla società circostante, di non essere in grado di rispettare un preciso comportamento rituale; questo è un esempio di una paura che ha generato grossi problemi di adattamento e che ha indotto cerimoniali inutili dal punto di vista pratico.
Quando questa persona venne da me la prima volta, prima che io conoscessi la sua fobia, era evidente che soffriva, malgrado l’età, di couperose e di acne evidente sul viso e sul collo, e con la pelle delle mani particolarmente secca e screpolata. Quando mi esternò la sua fobia, che lo faceva molto soffrire per la difficoltà di avere relazioni interpersonali soddisfacenti, gli chiesi se fosse stato il pronunciato colore rossastro del naso e delle guance o le pustole a metterlo in imbarazzo, scoprii allora che, in realtà, non aveva neanche del tutto chiaro di quanto la sua pelle fosse arrossata e brufolosa; quello che temeva era che si vedesse qualche cosa che non sapeva di avere. Ora, in questo caso, la fobia liturgica ci ha portato verso un comportamento, ma anche verso una manifestazione evidente della paura che la generava, nella sua faccia c’erano tanti punti di sfogo a denunciare la sua paura di essere guardato e la sua collera.
La Oliverio Ferraris a proposito di questi comportamenti dice che…tale prassi porta con sé un notevole dispendio di tempo e di energia, e la chiusura - frustrante per l’individuo - a settori rilevanti della vita sociale.
Certamente vero, ma è anche vero che questa frustrazione, che alla paura si accompagna o ne consegue, scende nel corpo, si manifesta nel corpo, fa del corpo il suo banditore; nel nostro paziente quelle mani che continuano a toccare il volto e la testa, nel contempo mostravano la loro aridità, evidenziando così anche la paura di toccare gli altri; la secchezza, l’aridità della pelle, come avevamo a suo tempo indicato, esprimono un disagio affettivo nel rapporto con gli altri.
È interessante sapere che il paziente era venuto da me per disturbi gastrici e intestinali, soprattutto gonfiore e stipsi; anche in questo caso la difficoltà a digerire emozioni e il tenere sotto controllo la situazione erano evidenti, ma non sembrava preoccupato dello stato della pelle, sia del volto, sia delle mani, che fu invece, avendoglielo io fatto notare, l’occasione per parlare della sua paura ossessiva e della sua liturgia di compensazione. In questo caso la paura primaria di non essere all’altezza della situazione, temendo di essere sempre sporco in viso, era stata così introiettata e in qualche modo trasferita nella liturgia ossessiva, così da non essere più un problema. I sintomi della pelle, anche loro, erano stati rimossi come se non fosse preoccupante ciò che c’era veramente sulla pelle, ma soltanto ciò che si temeva potesse esserci. La fobia di essere sporchi meriterebbe da sola una seduta di studio, ed è sempre rivelatrice di un profondo disagio che evidenzia di solito sensi di colpa.
Ho citato questo esempio perché è proprio questo passaggio, che a tanta parte di pur pregevoli psicologi e psicanalisti sfugge, vale a dire che l’emozione diviene la malattia del corpo, che a noi interessa fondamentalmente quando prendiamo in esame le nostre patologie; è il fondamento del principio che la malattia è un messaggio e che in questo messaggio si riveli la verità della patologia stessa, la malattia rende sinceri.
La Oliverio Ferraris fa notare quanto l’emozione della paura sia fondamentalmente all’origine di tanti rapporti disturbati tra le persone…come le radici di questa emozione vadano ricercate oltre che negli innatismi, in errori educativi, in generalizzazioni sbagliate, in esperienze disorganizzanti.
Innatismi ed errori educativi in realtà non sono facilmente separabili, sia perché ovviamente gli innatismi appartengono alle primissime età, sia perché gli errori educativi possono essere altrettanto pertinenti all’età precoce.
I rumori improvvisi, movimenti bruschi, il radicale e improvviso mutamento nei modi di trattare il bambino provocano uno stimolo allarmante; questo stimolo è una risposta al rischio della propria sopravvivenza e mette in moto, appunto, l’emozione della paura che rende più guardinghi; siamo di fronte a quella che abbiamo definito essere una paura necessaria.
Un’educazione che però non tenga conto di quelle che sono le aspettative e le esigenze di un bambino, può generare le stesse conseguenze, ovvero rendere il bambino sospettoso: la reazione innata genera l’emozione della paura, che diventa transitoria, a meno che la reazione non sia una risposta ad un evento traumatico, che modifica il contesto in cui il bambino si trova; un urlo improvviso spaventa il bambino, che si mette a piangere, ma l’intervento dell’adulto che lo tranquillizza, rimanda la risposta all’interno di un naturale comportamento di fronte al pericolo, senza lasciare traccia nell’evoluzione del bambino stesso.
Quando però l’evento sia un trauma che non si ricompone entro un tempo breve, può generare una paura che non rientra, e lasciare di conseguenza un segno perenne nell’evoluzione del bambino: una catastrofe che costringa a una significativa modificazione delle abitudini può lasciare un segno perenne, così come due genitori che incominciano a litigare in modo violento, e di conseguenza nessuno dei due si dedica a tranquillizzare il bambino, che avverte intorno a sé una situazione di pericolo, può lasciare un segno perenne.
È indubbio però che ognuno, per sue caratteristiche personali, può reagire, immediatamente o nel trascorrere del tempo immediatamente successivo, in modi differenti.
In questo non trovo nessun’altra possibile spiegazione se non nella valutazione della prakriti, secondo i principi dell’Ayurveda.
Soltanto se partiamo dal presupposto che ogni prakriti, per la sua particolare composizione del tridosha, con particolare riferimento al dosha prevalente, reagisce in modo differente agli stimoli esterni, possiamo comprendere come possa essere differente la risposta alla reazione e quale grado di conseguenza nel tempo essa possa avere.
In una prakriti di tipo vatico la sensibilità è costantemente allertata e di conseguenza anche minime evenienze o circostanze possono indurre un’attenzione e financo uno spavento, soprattutto nel bambino.
In una prakriti di tipo pittico la risposta può essere immediata ed anche esagerata, ma tende a rientrare abbastanza rapidamente e la caratteristica di fuoco spinge alla ricerca della causa e alla ricerca della soluzione, cosicché nel tempo la carica emozionale sarà molto meno influente.
In una prakriti di tipo kaphico, la risposta piuttosto lenta avviene per stimoli molto significativi, ma nel complesso la reazione può portare al superamento o a quelle pericolose forme di introiezione che nei kaphici diventano mutismo, sospetto, diffidenza.
Il ripetersi di eventi che generano paura può spingere una prakriti vatica al terrore e lasciare un segno perenne nell’evoluzione del bambino; una prakriti pittica sarà indotta invece ad una rabbia e ad un rancore che potranno generare una personalità irascibile e financo violenta; una prakriti kaphica potrà essere spinta ad un cupo silenzio e a penose chiusure.
Generalizzazioni sbagliate sono quei comportamenti che richiedono fin da piccoli di adeguarsi ad un modello universalmente riconosciuto: tutti i bambini, giunti all’età x, debbono produrre y; è ovvio che chi non riesce o pensa di non riuscire, entra in uno stato di paura; questa condizione, se protratta nel tempo, può lasciare segni nell’evoluzione di quel bambino nell’età adulta.
Per esperienze disorganizzanti s’intendono quelle vicende che per esempio conducono un bambino da una famiglia a un’altra, da un affidamento ad un altro, oppure a periodi ripetuti di ricovero ospedaliero, cioè tutte quelle esperienze che rendono instabile la propria sopravvivenza fisica ed emotiva.
Arrivati a questo punto mi pare importante prendere in esame quella che potremmo chiamare, anche se il termine non è propriamente adatto, l’origine della paura, che, seguendo il tratteggio che ne dà la Oliverio Ferraris, potremmo distinguere in un’origine innata e in un’origine appresa; la qual cosa effettivamente dà contezza di quelle che sono paure comuni all’umanità, la paura del buio per esempio, e di quelle che sono invece paure legate a diversi contesti culturali ed etnici, per esempio la paura di mostrarsi nudi non appartiene a certe società, mentre è riscontrabile in altre.
L’innatismo è legato ad una risposta ad un certo tipo di stimoli provenienti dal mondo circostante e facilmente riscontrabili soprattutto nei bambini che sono naturalmente indifesi.
I comportamenti appresi fanno invece parte del contesto di appartenenza. È ovvio che gli uni e gli altri possono in molti casi interagire.
Sostanzialmente si ritiene che la paura innata sia una manifestazione del senso d’impotenza psichica contro l’insorgere di stimolazioni pulsionali; in questo senso, per esempio, la paura di perdere l’oggetto libidico (il più delle volte la madre), sul quale vengono proiettate le tensioni interne, può generare nel bambino uno stato d’ansia, che può manifestarsi in diversi modi…poiché è quasi sempre la madre l’agente in grado di ridurre l’eccitazione del bambino, questi apprende ben presto a temerne l’assenza o l’inefficienza cosicché la paura della perdita dell’oggetto libidico diventa la principale forma d’ansia nel primo anno di vita. La paura che nasce dall’impossibilità di scaricare la propria libido sulla madre assumerebbe poi varie forme nevrotiche: angoscia, fobia, sintomi somatici.
E in questo è dichiarata la fondamentale importanza di un sano rapporto della madre con il bambino, e conseguentemente di quanto può nel corso della vita essere determinante il percorso che il bambino ha fatto nel suo primo anno di vita: se ne deduce che l’abitudine consolidata nella nostra società di trasferire figli, persino di pochissimi mesi, negli asili nido, non sia un buon progetto esistenziale; se ne deduce anche che quanto di ansia si è formata nel primo anno dell’esistenza possa poi assumere forme diverse di paura nel corso dell’esistenza stessa, a seconda di come si sia sviluppata l’esistenza dell’individuo, e contestualmente dei condizionamenti sociali, ovvero di quanto i comportamenti appresi possano poi incidere più o meno significativamente.
La memoria del primo anno di vita resta in forme di comportamento che talvolta solo con fatica vengono ascritte a quanto successo in quel primo anno di vita.
La madre che soffre di depressione post-partum e che tendenzialmente rifiuta il proprio figlio, lascerà in lui un profondo senso di insicurezza che, se non sostenuto nella successiva fase infantile, può generare un profondo senso di svalutazione, paura della competizione, e di conseguenza tendenza all’isolamento, che a loro volta potranno esitare in vere e proprie manifestazioni nevrotiche.
Le paure innate più note, come un forte rumore, un movimento improvviso, un repentino passaggio dalla luce al buio o viceversa, la presenza di estranei, sono in qualche modo corredo di un’educazione alla sopravvivenza.
Teniamo tuttavia presente che in tutti gli innatismi esistono, come abbiamo detto, risposte individuali di differente intensità; conosciamo tutti bambini che, di fronte al medesimo stimolo, reagiscono con espressioni minimali di timore, e altri che invece, reagiscono con vere e proprie crisi di pianto incontenibile.
Sulla paura che si radica nel primo anno di vita, a partire dalla nascita e, per qualcheduno, persino anche dalla gravidanza, per le conseguenze che ne possono derivare, esiste oggi un’importante letteratura sulla quale varrebbe la pena di soffermarsi per un intero seminario.
Quel che ci interessa in questa sede è comprendere la relazione che hanno alcune situazioni di paura e che possono restare nell’evoluzione del bambino e poi dell’adulto, trasferendosi in forma occulta in patologie palesi.
Secondo alcune teorie psicoanalitiche, tuttavia, tutte le paure, a prescindere da come esse si siano originate, sono riconducibili in realtà soltanto a due grandi paure, che sarebbero così alla radice di tutte le altre, che altro non sarebbero mere differenti manifestazioni delle stesse reazioni.
Otto Rank, psicologo allievo di Freud, diceva che esistono fondamentalmente due paure: la paura di vivere e la paura di morire.
La prima, la paura di vivere, si manifesta nel desiderio di non essere separati dalle cose e dalle persone che ci proteggono e nel rifiuto del cambiamento.
La seconda, la paura di morire, si manifesta nel desiderio di diventare indipendenti e potenti.
Quando prevalga la paura di vivere, la persona si comporta secondo i canoni del conformismo e non riesce ad esplicare le proprie qualità e a realizzare il proprio progetto esistenziale.
Quando, al contrario, prevalga la paura della morte, la persona assume comportamenti nevrotici ed esaltati, che lo spingono a rifiutare il conformismo e la ricerca di consenso sociale e a non trovare accettabili modalità di relazionarsi con gli altri che, ovviamente, sono o debbono mettersi al suo servizio.
Si esce da questo conflitto, dice Rank, solamente quando si riesca ad avere un approccio creativo alla vita, quando si è artisti del proprio esistere; l’artista, così inteso, riconosce entrambe le paure, ma attraverso la sua creatività le esorcizza o almeno le minimizza; non si conforma, ma non rifiuta aprioristicamente gli schemi delle altre persone, non ricerca il consenso degli altri, ma non lo rifiuta, non ne ha bisogno, ma ne gode.
La prima, la paura di vivere, è stata definita dal desiderio di non essere separati dalle cose e dalle persone, ovvero, decodificherei, come paura della solitudine, paura dell’abbandono, paura di non essere amati e dal rifiuto del cambiamento, ovvero paura di affrontare tutto ciò che la vita ci propone, paura di diventare grandi, paura di amare, paura della competizione, paura di non essere all’altezza.
La seconda, la paura di morire, che è stata definita come manifestazione del desiderio di indipendenza e di potenza, riguarda tutto l’ambito del potere: potere sull’altro, sul gruppo, desiderio di affermazione, desiderio di supremazia, desiderio di essere protagonisti, bisogno di attenzione, ecc.
Tutto questo noi l’abbiamo già affrontato lavorando sulle patologie dei diversi apparati, senza che mai analizzassimo i meccanismi stessi della paura.
Pensiamo allora per esempio a quel che abbiamo detto di cifosi e di lordosi, all’alternanza delle quattro curve che danno alla colonna importanti proprietà elastiche e di grande resistenza e possiamo ricordare che la cifosi è caratteristica di bambini già piegati dalla vita, perché incapaci di stare eretti nel modo corretto, ma anche degli adulatori, di chi si flette per sudditanza.
La lordosi, come avevamo indicato, curva all’indietro per eccesso di rigidità, manifestazione della propria irriducibilità.
La cifosi esprime un adattamento portato fino al servilismo, la lordosi l’attitudine al comando, all’imposizione.
Da una parte i vinti, dall’altra i vincitori: oggi possiamo giustamente dire che da una parte c’è chi ha paura di vivere, dall’altra chi ha paura di morire.
Ricorderete inoltre quanto abbiamo detto a proposito del respiro e dei suoi problemi, ovvero che avere difficoltà di respiro è indicazione di un disagio profondo, in genere legato al sentimento di non sentirsi abbastanza amati.
Avere il naso chiuso è come se noi non volessimo respirare fino in fondo l’aria circostante, la difficoltà di respiro può arrivare fino alla sinusite che costringe a non respirare, espressione del rifiuto di respirare a pieni polmoni la vita che ci circonda: siamo in questo caso di fronte alla paura di vivere.
Alla stessa stregua, abbiamo accennato alle malattie da raffreddamento, indice di una percezione di isolamento, di incapacità a proseguire nei rapporti interpersonali e, anche in questo caso, siamo di fronte a una paura di vivere. Avevamo peraltro visto come l’asmatico sia assillato dal desiderio di potere e trasferisca nel corpo l’aspetto di dominare, prendere quel che c’è intorno; l’asmatico non ha mai abbastanza di aria, intesa come reale di ciò che c’è intorno e utilizza il sintomo per catturare aria e soprattutto attenzione.
Siamo di fronte alla paura di morire.
Noi possiamo analizzare quel che abbiamo detto negli incontri precedenti secondo questa visione, ovvero due paure fondamentali, la paura di vivere e la paura di morire; anche se non è così intuitivo comprendere la ragione per cui alcuni sono dominati dalla paura di vivere e altri dalla paura di morire. Si torna, in questo caso, a dover ritornare a prendere in esame le parti più antiche della personalità, costituite, secondo alcuni, già nella condizione fetale. Sappiamo per esempio che i figli di madri depresse o figli non desiderati abbiano spesso timori e paure in forme più o meno devastanti. È anche vero però che chi si presenta alla vita con un carico di esperienze che lo abbiano portato a vivere una di queste due paure ha l’opportunità di elaborare un suo percorso ed è altrettanto vero che in un ambiente favorevole la paura del bambino, l’una o l’altra che sia, può essere via via elaborata, esorcizzata, annullata; così come in un ambiente sfavorevole o non idoneo, queste paure possono sovraccaricarsi diventando un problema serio e dando manifestazioni patologiche significative.
Potremmo immaginare che la paura di vivere e la paura di morire trovino una cassa di risonanza nel prosieguo delle esperienze esistenziali.
La nostra autrice, che ho voluto prendere come indicatore primario in questa nostra indagine, si sofferma successivamente sull’ipotesi che la paura possa essere una forma in cui, in realtà, si esprime la frustrazione, riferendosi in particolare al lavoro di J. A. Gray, The Psychology of fear and stress, laddove lo psicologo comportamentista sostiene che la paura svolgerebbe un ruolo centrale, non soltanto ovviamente in tutte quelle situazioni in cui esiste un rischio reale, ma anche…in quelle situazioni in cui le aspettative dell’individuo sono disattese e le sue speranze frustrate.
Sono d’avviso che le esperienze frustranti siano fomite di esasperazione di paure, talvolta minimali, e per ciò stesso, tendono a passare inosservate; la Oliverio Ferraris sottolinea che, nel caso di frustrazione o di delusione, si assiste ad un aumento del senso di insicurezza, e qualora le frustrazioni o le delusioni si ripresentassero nel tempo – e vorrei aggiungere che ha significato sia il ripresentarsi in tempi brevi, sia il ripresentarsi di gravi frustrazioni in tempi fra loro particolarmente distanti – non aumenta soltanto il senso di insicurezza, ma si abbassa proporzionalmente l’autostima, e con tale abbassamento si apre la porta ai sensi di colpa, alla sfiducia nei confronti delle proprie possibilità, ma anche nei confronti degli altri, e infine all’autoisolamento. Ma, aggiungerei io, la frustrazione può dare anche origine alla svolta rabbiosa e violenta.
La frustrazione è certamente fomite di esasperazione, ma non possiamo sapere aprioristicamente se agirà sul versante della paura di vivere, favorendo dunque l’autoisolamento e persino la depressione, o se, al contrario, agirà sul versante della paura di morire spingendo all’azione violenta, all’attacco in forma difensiva.
A questo proposito l’autrice fa riferimento all’alcoolismo, al quale noi abbiamo dedicato la nostra attenzione quando abbiamo analizzato fegato e pancreas e sostiene che…con maggior frequenza [l’alcoolismo] è dovuto ad aspettative e speranze frustrate.
Ricordiamo cosa dicemmo noi dell’alcoolismo…è molto di più del bere alcool: ci sono infatti grandi bevitori che non sono alcoolisti; in genere si beve per trovare il coraggio di imporsi agli altri, per trovare l’avvio di una socializzazione difficile o per avere, come nel caso dei giovani bevitori, la sensazione di essere diventati grandi e di poter trasgredire alle regole dei genitori e delle autorità.
In questo noi intravvediamo chiaramente l’emergenza del potere, paura della morte, lo sforzo di affermarsi a scapito dell’autorità costituita e delle regole, ma anche la paura di vivere, evidenziandosi la fatica di abbandonare comportamenti non più adatti o temendo di perdere il contatto con altre persone a cui si tiene.
Poi aggiungemmo che…quando invece l’abitudine diviene costume di vita, ovvero si è di fronte ad una dipendenza da alcool, si evidenzia uno stato di perenne paura, di perenne sentimento di profonda insoddisfazione: si beve allora per dimenticare, per sfuggire una realtà dolorosa o deludente, per non provar dolore, per non avvertire il pungente senso di isolamento o di solitudine; si beve per trovare il coraggio che non si ha, per illudersi di non aver paura, per immaginarsi mondi inesistenti.
Non volevamo soltanto evidenziare il passaggio dall’occasionalità alla dipendenza, ma una diversa paura agente e, in questo caso, trattasi di paura di vivere, paura di affrontare la realtà circostante, ma nel contempo si esorcizza la paura di morire perché si utilizza, come tanti fanno, la condizione di alcoolista per tenere in pugno chi sta intorno, che o si preoccupa o è infastidito.
Tuttavia sia nel primo caso, l’occasionalità, sia nel secondo, la dipendenza, spesso si cela la paura della frustrazione. La frustrazione è però anche molla dell’aggressività, anche se ai fini della nostra indagine poco importa insistere su queste differenze.
La paura che si origina dalla frustrazione o da altri stati emotivi, come abbiamo detto prima, può esitare, quando eccessivamente introiettata nella depressione o nella violenza, quando esteriorizzata.
La frustrazione tuttavia è un segnale di pericolo, perché nasconde un disagio, che, nei casi in cui si verifichi la concomitanza di eventi imprevedibili, può spingere verso la diminuzione dell’autostima, l’aumento dell’insicurezza e di qui dar origine a molteplici espressioni della paura che peraltro sono riconducibili alla paura di vivere o alla paura di morire.
Mi pare però importante rilevare che pur partendo da differenti interpretazioni, e pur dando nomi differenti, siamo di fronte sempre al medesimo aspetto.
Anche quando si affronta la frustrazione, oserei aggiungere che essa può essere immotivata, ma allora è già paura della competizione, paura di mettersi in gioco, paura di essere se stessi, paura di fallire; e quando sia invece motivata, conseguenza di un insuccesso, diviene in realtà paura di perdere potere, di perdere il contatto con il ruolo, di divenire invisibili e per ciò stesso essere abbandonati.
Per questa ragione, a me sembra che il tratteggio che si è riverberato da un incontro all’altro nei due cicli precedenti, abbia un impianto robusto, che non emerge solo dall’analisi del ripetersi di certi sintomi in certe situazioni, così come compie la cosiddetta medicina emozionale, ma trovi un preciso riscontro nel mondo attuale della psicologia, anche se pochissimi degli esponenti di questa disciplina, forse per l’ignoranza del catalogo delle malattie a cui è soggetto il fisico, hanno poi affrontato.
L’aver separato la mente, appannaggio degli psicologi o ancor di più degli psichiatri, dal corpo, appannaggio invece della medicina interna nelle sue differenti branchie, produce risultati come questo: gli psicologi hanno colto molto bene le valenze delle nostre emozioni, ma non le vedono calarsi nel corpo e alla stessa stregua i sintomi sono trattati come se non appartenessero a nessun corpo particolare, ma soltanto ad un ideale modello e assolutamente al di là di ciò che avviene nella mente.
La Oliverio Ferraris sembra aprirsi a questa corrispondenza quando dedica un lungo paragrafo alle espressioni fisiche della paura, che inizia però con una dichiarazione che è quanto meno singolare, infatti dice…studi recenti hanno evidenziato il ruolo nell’ambito della comunicazione dei segnali non verbali: le persone, infatti, possono enfatizzare o negare con le espressioni del viso e le posture del corpo il contenuto di ciò che stanno dicendo. Singolare perché, intanto, prende in esame ciò che la persona dice in relazione a ciò che di lei appare; dice non pensa; è proprio qui lo scarto fra una cultura che ha preso in esame pensiero, consapevole o non, e la sua relazione con la fisicità, e di un’altra che, al contrario, si sta accostando a quel che potremmo chiamare emotività espressa attraverso la postura o la gestualità.
Esiste tuttavia una corrente psicanalitica di derivazione soprattutto statunitense che ha lavorato molto sul non detto, ma che si manifesta comunque nella gestualità; sono noti a tutti i lavori condotti dagli psicologi consulenti dell’esercito per l’arruolamento di nuove leve, lavori che si avvalgono anche dell’analisi di minime percezioni dello sguardo quando si facciano passare davanti agli occhi immagini di tipo particolare.
Singolare però lo è anche perché parlando di studi recenti la nostra autrice sembra dimenticare che sul rapporto pensiero e stati di salute fisica si fonda il pensiero di Freud che analizzò persone che non riuscivano a camminare per momentanee paresi isteriche, bambini terrorizzati che si rifiutavano di mangiare, dormire, ecc., e sembra dimenticare Jung e tutta la scuola di area tedesca di Dethlefsen e Dahlke alla quale via via si sono aggiunti gli importanti lavori della scuola junghiana di Schellenbaum, della scuola francese legata più agli aspetti fisici, nonché la più nota corrente di Metamedicina fondata della microbiologa canadese Rainville.
La Oliverio Ferraris si sofferma successivamente sugli studi etologici per analizzare i comportamenti non verbali, dopo di che passa all’umano con questa dichiarazione…in genere, colui che è in preda ad una violenta paura adotta i seguenti comportamenti il cui significato è immediatamente evidente a chi lo osserva: si guarda intorno circospetto, inibisce l’azione fino a immobilizzarsi, trema, piange, si fa piccolo e se può si nasconde; chi ha paura si allontana velocemente dallo stimolo temuto e cerca di raggiungere una fonte di sicurezza; può anche inciampare, balbettare o svenire. E cita Darwin che aveva condotto uno studio comparato sulle espressioni delle emozioni e che aveva scritto a proposito della paura nell’uomo…la paura è spesso preceduta da stupore…gli occhi e la bocca si spalancano, le sopracciglia si alzano…sta dapprima immobile e senza respirare…s’accoccola istintivamente…il cuore batte a colpi precipitosi e violenti…ecc. La descrizione prosegue con molti dettagli sulle condizioni fisiche, che si evidenziano nello stato di paura, ma è evidente che Darwin e di conseguenza anche la Oliverio Ferraris, stanno parlando di paura oggettiva, di chi si trova di fronte ad un reale pericolo che può mettere la sua stessa esistenza alla prova; non mi pare di poter vedere in questa analisi la relazione fra quelle che sono le paure interiori e non oggettive.
Singolare dunque ancora di più che dopo aver esaminato gli aspetti della paura in relazione anche proprio ad emozioni non evidentemente oggettive si passi poi a valutarne le relazioni sul fisico, soffermandosi soltanto sulla paura realmente motivata da un pericolo oggettivo.
Ci si è evidentemente dimenticati che talune emozioni, come certe paure di essere contaminati, e che possono trasferirsi sulla pelle con manifestazioni evidentissime di dermatite, sono paure assolutamente interiorizzate, anche se qualcuno potrebbe obiettare che, per chi la vive, si tratta di una paura oggettiva in quanto percepisce una pericolosità dove essa non c’è, ma estremizzando, ci potrebbe essere.
Ma restano tuttavia paure, come quella di esprimere la propria carica sessuale e che, come abbiamo visto, si può trasferire in diverse patologie fisiche - negli adolescenti è di solito la causa dell’acne - che in realtà di oggettivo non hanno proprio nulla; il pericolo è rappresentato dall’oscuro agitarsi di una pulsione, che per convenienza o per educazione, non si osa manifestare. A meno di non voler identificare il pericolo oggettivo nella mentalità collettiva che si esprimerebbe nel consenso sociale, mentalità e consenso che spesso sono più presunte che reali.
Esiste ancora, e insisto perché è stata tanta parte dei nostri incontri, la paura di perdere ciò che si ha o la paura di non riuscire ad affermarsi come si vorrebbe, paura di vivere e paura di morire, a prescindere talvolta da quel che davvero si ha o dai tentativi di affermazione che possono non essere mai stati attuati, e quindi non aver nessun riscontro di possibile fallimento.
Abbiamo citato prima la postura della colonna vertebrale e potremmo citare ancora la più comune delle patologie dell’intestino, la stitichezza, come espressione del non lasciarsi andare per paura di perdere il controllo delle situazioni. Ma a queste si potrebbero aggiungere tante delle patologie che abbiamo esaminato nei due cicli di incontri precedenti a questo.
Paura, pavor, peur, fear, angst, la paura attraversa le etnie, le loro lingue, lo scorrere dei tempi, attraversa le classi sociali e rappresenta l’emozione che forse, più di altre, insieme all’amore, è il denominatore comune dell’umanità, al di là del tempo, al di là dello spazio.
Chiediamoci se senza la paura ci sarebbe stata l’evoluzione dell’umanità? La paura spinge alla difesa, spinge a trovare soluzione, vie d’uscita, come la curiosità attiva le capacità dell’individuo, della collettività, si pacifica collettivamente nei grandi riti; la paura che il Sole non torni indietro dopo la sua corsa verso un punto sempre più lontano dalla Terra si esorcizza con riti propiziatori e quando il Sole arresta la sua fuga l’umanità scoppia in riti di gioia. È il trionfo della luce sulle tenebre: in India è la grande Diwali, luci dovunque che rassicurano che la vita riprende, e infatti per loro è capodanno. Dies natalis per i latini, che festeggiano il nuovo anno, che il Cristianesimo, per distinguersi, sposterà di qualche giorno lasciando al Dies Natalis tutta l’importanza della nascita del Messia, novus, nel senso latino di ultimo che riportava l’umanità alla vita; festa delle luci nel più antico mondo ebraico, con il candelabro a otto braccia che si riaccende dopo le tenebre della perdita di libertà, grazie ai Maccabei che hanno ridato al Tempio la sua solarità.
Riti collettivi che esorcizzano dalla paura, che nel privato, nell’intimità individuale non si esorcizza, resta a spaventare nella quotidianità esistenziale, e si scrive nel corpo con i suoi segni, che per ognuno, sono diversi, perché ognuno è unico, solo, nel senso latino del termine, solo di fronte alla vita.
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