lunedì 29 giugno 2020

MARTE simbolo della guerra perenne, fra mito, astrologia e storia

Marte, il romano, per certi aspetti, è simile ad Ares, il greco, o forse persino in parte ne deriva alcuni tratti, tuttavia in realtà ha molti altri parenti a lui simili, sparsi nel mondo, eppure mantiene una sua identità, un profilo molto preciso: collochiamoci in un tempo-spazio di grande ampiezza, per comprendere la trama che sottende questa divinità.



Statua in bronzo di Marte, Museo Gaziantep, Turchia.


Marceline Senard, nel suo testo fondamentale, Lo zodiaco applicato alla psicologia[1]ricava il nome di Ares-Marte dall’etimo areche in greco indicava colleraviolenza, e che, a sua volta, deriverebbe dalla radice sanscrita marche si ritrova nel nome della divinità vedica Marutil dio che dominava sulle tempeste, gli uragani e il sacro fuoco. Mi soffermo su Marut, perché in realtà non è un dio solo, ma – potremmo quasi dire – una famiglia di dèi, i quali, nella tradizione degli studi orientalistici, sono stati definiti dèi della tempesta; in realtà, nei Veda[2], che sono il più antico documento scritto della storia dell’umanità, sono qualcosa di più, soprattutto qualcosa di più misterioso e di più mistico. Infatti i Marut sono da considerare piuttosto una sorta di Ego umani intelligenti, manifestazioni di una potenza divina: troviamo descritto infatti che Shiva, divinità dalle molteplici valenze, assimilabile al dio del Fuoco, chiamato Agni, che rappresenta la forza costante della rigenerazione, danzatore cosmico che stimola il movimento stesso dell’Universo, e quando si incarna diviene sfrenato e sensuale, seduttore delle mogli degli asceti, aveva il potere di trasformare  pezzi di carne in giovani ragazzi, chiamati Marut, ai quali compete di scuotere l’albero del mondo[3] per farne cadere molteplici benefici sui mortali.


Prima metà del VII secolo, particolare che mostra il bordo di un architrave e un Marut, dio della tempesta e del vento. Parigi, Museo Guimet. 


Questa pennellata di bontà divina non tragga però in inganno, infatti l’Albero del mondo”, come “l’Albero della vita”[4], reperibile in altre culture, così come un altro albero a noi occidentali meglio conosciuto, posto al centro del Paradiso Terreste, ha i suoi doni, i quali, se mal utilizzati, possono produrre guai a non finire. 

Infatti, le leggende successive, maturate ancora all’interno della tradizione vedico-induista, ci indicano che i Marut sono le guardie del corpo di Indra, divinità guerriera, emblema di forza, vigore e coraggio, amante di tutte le donne, gran bevitore prima di ogni battaglia, che può diventare particolarmente violento; Indra è il grande protettore degli Arii, lui li guida con determinazione nelle loro conquiste nella valle dell’Indo, distruggendo con il fuoco le folte coltivazioni, che ingombrano e impediscono il percorso. 

Possiamo evidenziare il legame fra la grande forza e il fuoco, fra spinta alla conquista e impulso alla rigenerazione, fra sfrenata passionalità e violenza, temi che, come è noto sono associati al pianeta Marte, e al segno dell’Ariete. 

Roberto Calasso[5] riferisce come i Marut vengano evocati già negli inni del primo dei quattro Veda, RgVeda…arrivate o Marut, roboanti figli di Rudra, con i vostri carri fatti di folgore, provvisti di lance, con cavalli come ali! Volate verso di noi come uccelli con la bevanda suprema, voi dalle belle magie…e in un altro…la terra trema di paura davanti al loro impeto…e ancora…perfino la vasta montagna ha preso paura, perfino il dorso del cielo freme quando infuriate. Difficile non individuare già in questi canti alcuni dei tratti del greco Ares, e dei suoi due figli, dal nome emblematico, Terrore e Paura.

Marut, compagni di Indra, figli di Rudra, e successivamente li troveremo nella corte di ShivaIndraRudra Shiva sono emanazioni apparentemente di differenti divinità, ma in realtà si collocano in un percorso genealogico all’interno del pantheon della tradizione vedica, che prende le mosse dalla figura di Pàsupati, primigenia deità della fertilità, che, solitamente, è rappresentato con il pene eretto, in una postura yogica, con il volto forse bovino o forse di montone e con un copricapo con le corna[6] e che proseguiva con Rudradivinità della distruzione, della caccia, del vento, signore degli elementi, signore degli animali, il cui nome si collega alla radice rudda cui si origina il verbo che significa urlareululare, gemere, ma da cui si origina anche il sostantivo rudhirà, che significa sia rosso sia sangue, e infine terminava con Shiva, assimilato, in epoca più tarda, ad Agni dio del Fuoco.



Statua di Adiyogi della divinità indù Shiva, Coimbatore, Tamil Nadu.


Questo itinerario, che si muove intorno alla radice mar, come vediamo, è intessuto di quegli stessi attributi così facilmente riscontrabili in Ares-Marte. Le similitudini con la figura di Ares, soprattutto quella derivabile dai testi più antichi, sono inoppugnabili: nell’Iliade, Ares è chiamato da Atena…esizioso Iddio, che lordo ir godi d’uman sangue[7]e da Apollo…Marte omicida, che sol nel sangue esulti[8]. Ares, appare tardivamente nella tradizione mitologica greca, e intorno a lui sono fiorite numerose ascendenze: Ares, in una tradizione, è il figlio di Era e Zeus, ma in altre la sua nascita e quella di sua sorella Eris, la discordia, avviene per partenogenesi, durante una crisi di collera di Era, per i continui tradimenti di Giove, quand’essa toccò un fiore, che nelle differenti narrazioni ora è una lattuga ora il biancospino e, nel mondo celtico dell’antica Europa continentale, il pruno selvatico; può essere di interesse rilevare che nel mondo celtico il biancospino, pianta sacra e miracolosa, ha come sorella il pruno selvatico, simbolo invece della contesa; biancospino, agrifoglio e pruno sono tutte piante spinose, e hanno avuto una grande tradizione nella cultura celtica e mediterranea, e il loro culto, legato anche alle loro proprietà terapeutiche, dura ancora in tutto il Medioevo; Ovidio invece, nei Fasti[9], indicherà il fiordaliso come pianta toccata da Era, e della figlia che ne nasce, insieme ad Ares, Eris, la quale si narra che sia una dea collerica, spietata, che prova godimento nel suscitare conflitti e guerre, tanto da essere chiamata da Omero “Signora del dolore”[10]; in alcune leggende più tarde, riprese anche da Esopo[11], si narra che Eris sia molto piccola, ma quando la si combatte può diventare grande a dismisura: la collera si alimenta della rabbia che essa stessa produce. Il fiordaliso, nella tradizione romana, è legato al mito della dea Flora, la quale si era innamorata di un giovanotto chiamato Ciano, nome derivato dal greco, che indicava il colore blu, e quando lo trovò morto in un campo di fiori cresciuti in mezzo al grano, diede a quei fiori il nome dell’innamorato, fiori blu, fiordalisi[12].



Flora, statua romana in marmo, I-II secolo d.C., Roma, Musei Capitolini.

Questi dettagli ci aiutano semplicemente a comprendere come intorno al nostro personaggio, Ares-Marte, vi sia un tessuto di violenza, dolore, morte, lutto e persino di amore e morte. Eros e Thanatos sono contigui in questo personaggio, forse come in nessun altro del pantheon greco e romano, come potremo osservare più avanti.


Di Ares non sappiamo che poche cose fino a quando non fu eletto a divinità nel culto olimpico, sembra che fino ad allora fosse venerato come un semidio, che aveva come emblema un cinghiale, in memoria della guerra con i Titani, quando per sfuggire al terribile Tifone, Ares si tramutò in cinghiale, che era l’animale simbolo della ferinità selvaggia e dell’indomito coraggio. Soltanto in epoca più recente si identifica con il dio della guerra, della battaglia, ma anche con un dio che assembla il valore in guerra al valore di seduttore, ed è in questo contesto che fiorisce la leggenda della relazione con Afrodite, che tradisce lo sposo Efesto, e che da Ares ebbe tre figli: Deimos il terrore, Phoibos la paura, e Armoniala concordia; e anche qui non dobbiamo illuderci: Armonia è la prima dea che sposa un mortale, Cadmo, matrimonio che rappresenta il momento di passaggio dal mito degli dei al mito degli eroi; Cadmo e Armonia sono protagonisti di  una  vicenda intrisa  di violenza[13], da questo matrimonio infatti si genera la discendenza che porterà tragedie e lutti a Tebe, con le vicende legate a Edipo, raccontate da Sofocle[14].



Cadmo e Armonia sul carro, Pittore di Diosphos, 500 a.C., vaso, Parigi, Louvre.


Ares ama il fragore della battaglia, e insieme a sua sorella Eris, suscita sempre alterchi e nuove guerre, spargendo maldicenze e suscitando invidie; nella tradizione Ares ha solitamente il membro eretto, è impetuoso, litigioso e facile alle bevute; da questo breve profilo si evince che vi era una sorta di continuità fra la figura del dio proveniente dal mondo vedico e induista, e quello che emerge nel mondo greco e che ritroveremo in quello romano: in particolare sembrano caratteri comuni il fuoco bellico e il fuoco erotico, e alcuni simboli come il copricapo cornuto; un’ulteriore informazione che sembrerebbe indicare un procedere da Oriente verso il Mediterraneo è l’indicazione dell’assegnazione di una divinità con le caratteristiche sia di Marut sia di Ares al pianeta rosso, che era già avvenuta presso i babilonesi, dai quali, quasi con certezza possiamo ormai affermare che i greci derivassero lo Zodiaco, sebbene ne trasmutassero nella loro lingua i nomi, pur mantenendone i simboli[15].



Un planisfero celeste a otto sezioni che rappresenta il cielo notturno del 3-4 gennaio 650 a.C. sopra Ninive, conservato nella collezione del British Museum, proveniente dagli scavi di Austen Henry Layard presso la Biblioteca di Ashurbanipal a Ninive. 


Tuttavia sembra che Ares non avesse avuto un così grande peso presso i greci, e questo spiegherebbe la ragione per la quale non è rimasta neppure una statua[16]; tuttavia ci è rimasta l’Iliade. Quei cinquantuno giorni del racconto che chiude la decennale storia della guerra di Troia si dipartono dall’ira di Achille, proseguono in un coacervo di dispetti e rivalità fra i capi greci, dominati da passioni erotiche, si dipanano fra duelli, violenze, sangue, per concludersi con l’atroce morte di Ettore, ucciso da Achille, grazie alle armi forgiate da Efesto, il marito di Afrodite, che con Ares lo aveva tradito. L’Iliade è un monumento di parole, innalzate in forma poetica per questa divinità della guerra, quante non ve ne siano per ogni altra, non tanto per esservi citato, in realtà non troppe volte, ma per tutto l’insieme dei suoi attributi qui continuamente rappresentati: tutto ciò che è proprio di Ares infatti è trasferito nel comportamento degli uomini, nei loro tradimenti, nel loro bisogno di sangue, nella loro ferocia. Solamente nell’ultimo libro prevale la pietas di Giove che impone ad Achille di restituire il cadavere martoriato di Ettore al padre Priamo, e Giove vuole che dalle mura di Troia al campo dei greci Priamo sia accompagnato, in questo tristissimo viaggio, da Mercurio, in sembianze di giovinetto.



Il corpo di Ettore riportato a Troia, sarcofago romano, 180-200 d.C.,

Parigi, Museo del Louvre, dalla collezione borghese. 


Ares cede soltanto l’ultima scena dell’Iliade a Giove e a Mercurio, la cede quando la guerra ha mietuto le sue vittime: Priamo si muove in uno scenario di rovina e di tragedia; l’immagine del suo viaggio sul cocchio dalle mura di Troia al campo dei greci, sembra suggerire che la pietas divina riesce ad imporsi sulla bellicosità, soltanto quando questa ha compiuto fino in fondo il suo lavoro[17].

I romani, ad un certo punto della loro storia, importano l’Olimpo greco, e Ares, così come accade per altri dèi, viene assimilato a qualche divinità, che essi già avevano nella loro tradizione; Ares sembrava possedere una buona parte degli attributi del Marte nazionale e fu facile giungere ad una fusione, più estetica che altro: il Marte dei Romani era in realtà molto ben radicato nella tradizione italica e latina, si era formato da innesti provenienti da deità delle popolazioni italiche, via via integrate nella romanità; aveva sì una buona parte degli aspetti di Ares, ma aveva una storia assolutamente sua, tale che Ares aveva ben poco da aggiungere, se non forse quel quid di erotico, di cui nel loro perbenismo gli italici, che pur ne facevano d’ogni, poco ne parlavano.

Marte, torniamo alla radice Mar, che ritroviamo nell’etrusco Maris, nome di una deità particolare, forse piuttosto che una deità una sorta di spirito vitale, spesso associato alla dea Turanla grande madre, ed era raffigurato come un giovane protettore delle attività agonistiche e marziali, e, cosa non trascurabile, lo vediamo connesso nei reperti archeologici, al ciclo vitale, alla forza primigenia che tutto muove e rinnova, all’afflato di primavera, al risorgere della natura, alle nascite nelle greggi; così abbiamo un ulteriore indizio del legame di queste divinità  sparse nel mondo, con il Segno dell’Ariete. Ritroviamo ancora la radice Mar nel nome della popolazione dei Marsi, che praticavano riti della sacra primavera in onore a Marte, e Mar la recuperiamo ancora nel nome Mamers, divinità delle popolazioni di lingua osca, che dà il nome ai mamertini, soldati mercenari che ebbero un ruolo di non poco rilievo nelle vicende storiche della Sicilia; sempre comunque legata allo spirito bellico, all’ardore giovanile, che sottende il rinnovamento, morte e vita.



Statua colossale di Marte, opera romana, Roma, Musei Capitolini.


Si è ormai consolidata l’idea che…non è il culto di Giove la manifestazione più antica presso gli italici[18]bensì Marte, e così siamo in grado di comprendere meglio che Marte, padre dei gemelli, all’origine della storia Romana, proveniva da una ricca ramificazione, sparsa nelle terre italiche, e della ragione per cui divenne parte, in Roma, della gloriosa triade con Giove e Quirino. Soffermiamoci un attimo a considerare cosa avessero in comune Ares e Marte, entrambi – non perdiamolo di vista – originari di una medesima radice linguistica, comune ad altre deità sparse sia nell’alveo del fiume indoeuropeo, sia nel vasto mondo celtico, e che ne fa espressione di un comune sentire, di una comune rappresentazione, che si fonda sulla struttura originaria del mito, anzi aggiungerei del mito universale, quello che in termini moderni diremmo essere un “archetipo”. Se mettiamo insieme gli attributi che vengono assegnati all’uno e all’altro, qualcosa di interessante comincia a delinearsi: Ares è chiamato kraterós (forte, soprannaturale, forte e violento), aídelos (distruttore), androphoneús (uccisore di uomini, omicida), brotoloigós (funesto agli uomini mortali), miaiphónos (lordo di sangue omicida); Marte, più riccamente descritto, ci propone un più ampio corredo: furibundus, ferus (ferino, bestiale), ferox (feroce), nimius (eccessivo), atrox (atroce), calidus (ardente), lascivus (sfrenato, osceno), astatus (armato di lancia), ultor (vendicatore), turpis (vergognoso), asper (spietato), saevus (feroce), ai quali potremmo aggiungere insanus, coecus, scelleratus, confusus. Da tutti quegli attributi, quello che balza immediatamente è la corporeità, una fisicità brutale che porta violenza, distruzione, morte; un aspetto che lo rende inviso persino a Zeus…Tu sei il più odioso per me dei numi che abitano l’Olimpo: sempre contesa t’è cara, e guerra e battaglia[19]. Zeus, come detto, è negato in una tradizione come padre di Ares, perché si preferisce pensarlo nato da Era per partenogenesi, come rabbiosa risposta ai tradimenti di Zeus: la rabbia è, potremmo dire, nel DNA di questa deità, che trova nell’Iliade, il suo teatro. Nella cultura romano-latina manca un testo così denso di violenza, ma è altrettanto vero che Marte è l’anima stessa dei romani conquistatori, che seppero articolarlo in modo più vario e complesso. Marte è il progenitore, e questo dota tutta la stirpe delle sue qualità, i romani si vantano di possedere i cromosomi di questo pater, di sentirlo scorrere nel loro sangue. In questo c’è, pur non così evidente come potrebbe sembrare, un’altra nota comune ad Ares, ovvero la genealogia; abbiamo un figlio della collera, che, come è noto, a sua volta genera Phobos e Deimos, paura e terrore; dall’altra un padre che diviene progenitore di una lunga stirpe, attraverso Rhea Silvia, posseduta con la forza nel bosco sacro: anche nella tradizione latina una nascita conseguente ad una violenza, che si ripete nella morte terribile della vestale, per aver mancato al suo voto di castità: abbandonata dal dio che l’ha ingravidata, è sola con la sua vergogna, e sola nella condanna.



Marte e Rea Silvia, Peter Paul Rubens, Liechtenstein Museum.


Una feroce giustizia, come narra la leggenda, che tuttavia è soltanto parziale conclusione di una riga di sangue all’interno della famiglia da cui proveniva la vestale Rea[20], e che trova la sua apoteosi nella sorte dei figli nel fratricidio consumato, insomma una riga di violenza e di sangue delinea l’origine di quel popolo, che mescolandosi con popoli italici che via via sottomette, istituisce la virtus militare nel nome di Marte. I Romani esaltarono talmente la figura di Marte, tanto che erano soliti chiamarsi i suoi figli, e a lui dedicano il mese, in cui si situa l’equinozio di primavera, che indica l’inizio del transito del Sole nel segno dell’Ariete, attribuendogli la forza della perenne rigenerazione. Marte è il protagonista delle celebrazioni del Ver Sacrum[21], che apriva in quella stagione il periodo delle guerre, e a lui si rivolgevano i soldati prima di scendere in battaglia con una particolare invocazione, quasi una profonda meditazione, finalizzata a giungere ad una sorta di transumanazione, per acquisire la forza di del dio stesso, per affrontare il nemico impavidi. Marte è protagonista di almeno due feste con sacrifici di animali: la prima annuale, si svolgeva alle Idi di Ottobre con una corsa delle bighe, che prevedeva il sacrificio di un cavallo (quello di destra del trio vincente) con un colpo di lancia, a cui veniva poi tagliata la coda e sparso il sangue nella parte del Foro, chiamata Regia; la seconda era una festa, che si teneva ogni lustro, in campo Marzio, durante la quale si sacrificavano un bue, un maiale, una pecora davanti all’altare di Marte: riti sacrificali di sangue.

Rispetto ad Ares, il nostro Marte sembra avere una ancor più radicata forma di violenza, di bellicosità: Marte sembra essere nella quotidianità romana una sorta di memento che diviene costante incitamento alla bellicosità, mantrica ripetizione di una identità che ha il compito di conquistare il mondo. Non trascuriamo peraltro che anche i giovani ateniesi prestavano il loro giuramento di fedeltà alla città al dio Ares, al quale si rivolgevano anche le Amazzoni, tenendolo nel conto di protettore; mancano più precise indicazioni, ma gli indizi ci sono. Si tende a esaltare l’aspetto militare di questa divinità, e pur considerando i suoi momenti erotici con Afrodite-Venere, questa componente non sembra poi così tanto indagata; eppure quanto ha da dire; nella tradizione successiva iconografica dal Rinascimento in poi, allora non è casuale se nella coppia si intravvede Venere che placa gli ardori bellici di Marte, non tanto come l’amante pura, ma piuttosto come colei che offre una tregua a questo simbolo di distruzione, anzi colei che la offre all’umanità, così come l’aveva esattamente concepita il Canova[22].




Antonio Canova, Marte e Venere, Buckingham Palace. 


Su questo aspetto erotico vale la pena di spendere ancora due parole; chi è davvero questa dea, Afrodite-Venere, che incanta seduce placa il dio bellicoso e sanguinario? Non è forse lei che promettendo a Paride l’amor di Elena, lui la sceglierà come vincitrice di quel pomo messo in gioco da Eris, la Discordia, sorella di Ares, e che darà origine alla guerra di Troia, monumento della bellicosità marziana[23]?

Per analogia pensiamo ad un altro pomo, messo lì su un altro albero per tentare i progenitori dell’umanità, e alle conseguenze che si produssero a partire dall’altro fratricidio, esattamente come nella progenie romana. E non è forse Afrodite, come leggiamo in Esiodo, che nasce dalla spuma del mare (Aphròs) prodotta dalla caduta del membro di Urano, evirato da suo figlio Cronos? Violenza e ancora violenza: tenendo questa coppia davanti a noi in tutta la successione iconografica rinascimentale e moderna, potremmo parlare della bellezza al servizio della guerra. Per tutto questo la componente dell’amore in Ares-Marte potrebbe essere quella dell’amore per la guerra: le passioni infiammano, come si può leggere nella Lettera di Giacomo…da dove vengono le guerre e le liti, che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra[24]Le passioni nascono nelle membra e si riverberano nel mondo. In realtà, l’unica storia che conosciamo nel dettaglio di Ares e Afrodite, è quella narrata da Omero nell’Odissea[25], ma quanto ha lavorato sull’immaginario di artisti, quanto si è sbizzarrita l’arte figurativa? Di scritto abbiamo testi che da quella narrazione provengono o che a quella vicenda si ispirano, con le giuste varianti letterarie, di stile, di gusto, di epoca. Siamo all’inizio dell’epopea dell’immaginario occidentale, quando a Cnosso, Ares e Afrodite sono raffigurati insieme[26], ma solo Omero ne scrive, e ci racconta dei loro incontri amorosi consumati nel letto coniugale di lei e del di lei marito, Efesto; i due, forse attardandosi nelle loro faccende, furono visti dal Sole, che tutto vede…vide la colpa (traduzione Pindemonte)…che aveva i due veduti commisti in amore (traduzione Romagnoli), e fece la spia ad Efesto – alla luce del Sole, non è soltanto un modo di dire  il quale macchinò la vendetta che, essendo lui un inclito fabbro, fu di realizzare una geniale sottilissima rete di catene pressoché invisibili da sospendere sopra il letto nuziale…per coglierli entrambi (traduzione Romagnoli) – “coglierli” non solo nel senso metaforico del termine, coglierli come deposito nel colino dove si è filtrato un liquido, coglierli nella rete, come pesci che non hanno scampo. Fingendo di partire per uno dei suoi luoghi preferiti, Efesto si nascose; giunge Marte e sollecita Venere…vieni, o mia cara, sul letto corichiamoci insieme a sollazzo (traduzione Romagnoli), e furono avvolti – colti sul fatto – nella rete, che li immobilizzò; l’ira di Efesto è tanta, vuoi perché Afrodite è sua moglie vuoi perché Ares è suo fratello, e comincia ad urlare con tale forza che…dell’Olimpo l’udir gli abitatori: O Giove padre, e voi, disse, beati Numi, che d’immortal vita godete, cose venite a rimirar da riso, ma pure insopportabili. La scenetta prosegue con l’invocazione…testimon siate, o Numi, del lor giacersi uniti, e dell’ingrato spettacol che oggi sostener m’è forza. Quindi si avvia la trattativa…certo non si svilupperan d’este catene, se tutti prima non mi torna il padre quei, ch’io posi in sua man, doni dotali per la fanciulla svergognata…disse, e così gli dei si radunarono, venne Nettuno, Mercurio, Apollo…le dee non già: chè nelle stanze loro riteneale vergogna. Nell’atrio della casa avviene il raduno…sorse tra loro un riso inestinguibile, mirando di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo gli occhi al vicino, in tai parole uscia: fortunati non sono i nequitosi fatti, e il tardo talor l’agile arriva. Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte, che di velocità tutti d’Olimpo vince gli abitator, cogliere: il colse, zoppo essendo, con l’arte; onde la multa dell’adulterio gli può torre a dritto. Siamo di fronte ad una scenetta tragicomica, in cui si esprime la grande varietà dei sentimenti e delle emozioni umane.



Marte e Venere sorpresi da Vulcano, Joachim Wtewael, Malibu, Getty Museum.

Sono dèi, si potrebbe obiettare, ma – attenzione – dove sono gli dèi, siamo noi: come consumati psicoanalisti, i pensatori greci hanno messo in scena, dai poemi omerici alla tragedia, la poliedricità del sentire e dell’agire umano, le innumerevoli sfaccettature della complessità della psiche umana, hanno scavato nelle emozioni. Noi umani, umani di oggi, siamo animati ancora da forze che ci illudiamo di comprendere, anzi forse abbiamo per ora soltanto compreso che siamo animati, e direi persino incanalati, da forze archetipiche, quelle appunto che i greci avevano in qualche modo, e talvolta con vaghezze e contraddizioni, attribuito agli dèi; per dirla con un grandissimo psicoanalista filosofo contemporaneo,…la psicologia è mitologia in abiti contemporanei[27].

Marte e Venere fuggono dal letto, e la storia sembra concludersi, sembra, perché in realtà di cosa accada da quel momento in poi non interessa più a nessuno[28], nella mente di ogni lettore si fissa l’unione che diviene trappola, e che è la trappola dell’unione: da allora Ares-Marte e Afrodite-Venere sono inseparabili, nell’immaginario e nella realtà. Inseparabili, prima e dopo che il Sole li abbia scoperti nell’amplesso, portandoli alla luce, rendendo manifesto che la guerra e la bellezza sono strettamente congiunti nella bellezza della guerra. 

Il generale Patton, nel film biografico sulla sua figura di primaria importanza nella II Guerra Mondiale[29], ad un certo punto, in mezzo ad una terra devastata, piena di cadaveri, dice…come amo tutto questo, che dio mi aiuti, lo amo più della mia vita; alla stessa stregua il colonnello Bill Kilgore in Apocalypse Now, mentre infuriano i bombardamenti, dice…mi piace l’odore del Napalm di mattina, e racconta, cosa che ancor di più evidenzia l’aspetto esaltante della guerra…una volta una collina la bombardammo per dodici ore, e finita l’azione andai lì sopra. Non ci trovammo più nessuno, neanche un lurido cadavere di Viet-cong. Ma quell’odore, si sentiva quell’odore di benzina, tutta la collina odorava di...di vittoriaMarte è fra noi, anche quando cerchiamo la pace, in nome della pace…si vis pacem para bellum, l’adagio viene da lontano, da Vegezio, IV secolo, ma quattro secoli prima Cornelio Nepote…paritur pax bello la pace si ottiene con la guerra. Venere e Marte sono facce di una stessa medaglia.

I greci pensavano, e al loro pensiero, unico per profondità, che non ha eguali nell’Occidente, e nell’Universo umano trova una unica corrispondenza con i Veda, si è avvicinata la psicoanalisi, anzi, lentamente, l’ha fatto proprio quel pensiero, utilizzandolo in non poche prospettive di indagine. Tuttavia c’è un legame a unire queste due epifanie del pensiero, perché il pensiero dei greci sarebbe rimasto laggiù nelle loro isole, nelle polis, nella dialettica intestina, se non ci fossero stati i romani, con il loro pragmatismo e la loro tecnologia, a costruire ponti e strade: su quelle strade e su quei ponti passano i soldati, le salmerie, le mercanzie, genti nuove, le idee, le conoscenze, il pensiero; tutto viene metabolizzato dai romani, talvolta amalgamando “saperi” di diversa provenienza, e buona parte di quel tutto, ripeto talvolta frutto di innesti, lo consegneranno come patrimonio culturale all’Occidente, nel senso più ampio che si possa dare a questa parola. Questo patrimonio si fonda sulla visione di un Universo che è in assonanza con l’umanità, e l’umanità guardando l’Universo, leggendo il primo libro che ha avuto sua disposizione, il Cielo, dal suo punto di vista, la Terra, intreccia un dialogo con le componenti dell’Universo, un dialogo mitologico, tutto è mito: ogni costellazione, lo Zodiaco, i pianeti parlano con il linguaggio degli dèi; non è per caso che tutte le costellazioni, lo Zodiaco, i pianeti abbiano nomi mitologici, o comunque riferibili ad una divinità: tutto ha una corrispondenza, il microcosmo uomo è un riflesso del macrocosmo Universo. Il cosmo, nella sua complessità è un immensa struttura le cui parti sono in connessione, soggiacciono alle medesime leggi e funzionano con gli stessi principi, in modo analogo; ha sostenuto André Barbault in più occasioni che […l’energia che anima i corpi celesti è la stessa che anima gli esseri umani: un unico principio regge le divinità planetarie e gli elettroni,…la stessa corrente vitale circola dall’uno all’altro, dal microcosmo al macrocosmo, e poiché l’uomo è fatto ad immagine del mondo, possiamo facilmente conoscere sia l’uno che l’altro, con un unico studio]. Il linguaggio che ha interpretato quel ’’dialogo”, che lo traduce per renderlo comprensibile, è l’astrologia, un linguaggio che dai Vedanta ai Sumeri ai Babilonesi ai Greci giunge ai Romani, e da loro a noi, attraverso millenni di storia; un linguaggio – unico nella storia dell’umanità – tuttora parlato. Jung attraverso il mito giungerà all’idea di archetipo e all’idea di inconscio collettivo, ma al mito era arrivato dagli studi di astrologia. Per l’antica astrologia la divinità Ares-Marte e il pianeta Marte hanno le medesime caratteristiche, entrambi sono espressione della bellicosità, dell’aggressività, della rabbia, della volontà di potenza, del desiderio sessuale passionale e senza scrupoli; tuttavia gli antichi astrologi, che avevano filtrato la loro conoscenza attraverso la sensibilità per l’uomo-immagine dell’Assoluto, maturata nella cultura vedica, filtrata nell’idea dell’uomo immagine di Dio, uomo da quel Dio incaricato di dare nome al reale intorno a lui, come si legge nel Genesi[30], e permeato dalla profondità del pensiero greco, quello soprattutto che nella tragedia scarnifica l’animo umano, sanno che tutte quelle caratteristiche si possono esprimere in una complessa varietà di sfumature, che principalmente derivano, secondo le loro osservazioni, dalla posizione di Marte nel cielo, ovvero da quale parte dello Zodiaco, in un determinato momento, esso occupi, e per meglio spiegarmi, in quale segno dello zodiaco esso si trovi. Si parlava di influenze che il pianeta Marte a seconda della sua posizione ha sulle vicende umane. La moderna astrologia, filtrata sia dalla tradizione astrologica sia dai moderni assunti della psicologia, parla non tanto di influenze, quanto piuttosto del fatto che ogni astro è un simbolo di ciò che si svolge nel cuore e nella mente degli uomini, si tratta di una sorta di “simpatia interiore”, come la definisce André Barbault, fra due entità simili e in funzione della medesima partecipazione alla natura cosmica; si può con Barbault sostenere che…tra l’astro e l’uomo non si stabilisce una concatenazione di effetti; al contrario, l’astro e l’uomo sono visti in una simultaneità globale in cui l’astro è il segno dell’uomo come l’uomo è il segno dell’astro

Le caratteristiche che ho indicato di Ares-Marte e di Marte pianeta sono parte e componente delle complesse emozioni che vive ogni uomo. 

In ogni uomo c’è Marte: a tutt’oggi gli uomini, come suggerisce James Hillman…amano le loro armi, le fabbricano con la perizia di Efesto e la bellezza di Afrodite per gli scopi di Ares-Marte. Ma non solo amore per le armi, ma amore per la sfida, per la battaglia, per la conquista, per il potere, di cui le armi sono solo uno strumento; le armi di cui Marte era sempre dotato, anche nella tradizionale iconografia Marte, quanto meno ha l’elmo in testa e, quando non ha le armi in dosso, le ha vicino a sé ed è in posizione di riposo, solitamente in compagnia di Afrodite-Venere; le armi di cui Marte era sempre dotato sono la sicurezza di poter affrontare gli obiettivi che ci si propone: dalla pistola finta del ragazzo che tenta una rapina alla più terribile arma atomica per intimorire i possibili nemici vicini o lontani, c’è la differenza della portata, ma non la differenza del valore per cui si detiene o si cerca. E proseguendo oltre, abbandonando l’ambito delle armi e della guerra, Marte è tuttora in noi e fra noi, quando lasciamo che la passione devasti l’esistenza delle persone, ovvero quando il nostro obiettivo erotico diventa l’uomo o la donna sposata, e non valutiamo le conseguenze di un atto che coinvolge altre persone; è la passione che ci spinge a trovare metodi talvolta sanguinari per essere soddisfatta: quante sono nella cronaca nera le vicende di uxoricidi o omicidi legati alla passione? E ancora, le armi possono diventare sottili e impalpabili, come la calunnia, arma potentissima per distruggere un potenziale concorrente, o, per restare nel nostro tempo, possono esprimersi come un virus. Marte è ancora ben radicato e presente nell’umanità, diventa qui superfluo fare un elenco di quanti siano i fronti bellici oggi aperti nel mondo, diventa qui superfluo elencare gli omicidi passionali, e ancorché superfluo diventa fare un elenco di cronaca politica densa di calunnie dell’uno contro l’altro, non abbiamo bisogno di questo. Abbiamo bisogno di accettare l’idea che in ognuno di noi, in diverse modalità, si esprimono le caratteristiche marziane; le diverse modalità appartengono a quel quid che definisce una persona come individuo unico e irripetibile, e quel quid ha una sua interpretazione nella analisi del Tema natale; la posizione di Marte nel Tema natale può suggerirci in che modo la forza marziana si può esprimere nelle sue molteplici sfumature in ognuno di noi. Conoscere questo dato consente ad ognuno di noi di esercitarsi a incanalarlo o a controllarlo. Negli studi statistici condotti da Gauquelin, e sui quali ha affondato lo sguardo André Barbault[31], possiamo vedere che la più parte delle persone che hanno occupato alti gradi militari in Francia nei decenni ’50 e ’60 avevano Marte nel Tema natale in posizione forte; così come molti sportivi, soprattutto in sport individuali, avevano la stessa configurazione: questo ci indica che la bellicosità di Marte può esprimersi nell’aspetto più aggressivo, ovvero la guerra, o nell’aspetto meno distruttivo, ovvero l’attività sportiva. La conoscenza del mito, che ahimè oggi è così tanto trascurata non solo a livello scolastico, ma anche nella formazione degli psicologi, è fondamentale per riconoscere chi davvero noi siamo; Hillman suggerisce che noi siamo arrivati tardi, dopo venticinque e più secoli, a ritrovare il mondo antico; ci è sembrato in questi secoli di aver potuto così, grazie a tutto quello che è accaduto (cristianesimo, illuminismo, ecc.) rimuovere le nostre radici, ma non è così…ciò che avviene sui campi di battaglia è Marte, ciò che gli uomini si fanno a vicenda in guerra è Ares, la possessione che ci rende insieme folli e invasati, furiosi e incuranti della morte è Ares…Ares o Marte poco importa, lui, il dio, non sta al di sopra o dietro la scena a dirigere ciò che avviene. 

Egli è ciò che avviene.



Appendici


n. 1 Iliade, traduzione di Vincenzo Monti, Libro XXIV, 859-914. 

Tutti dormían sepolti in dolce sonno
I guerrieri e gli Dei, ma non l’amico   
860
De’ mortali Mercurio, che venía
Pur divisando in suo pensier la guisa

Di trarre, dalle guardie inosservato,
Fuor del dorico vallo il re troiano.
Stettegli adunque su la fronte, e disse:   
865
Re, così dormi fra’ nemici? e nulla
Ti cal del rischio in che ti trovi, uscito
Dagli artigli d’Achille? A caro prezzo
Redimesti l’amato estinto figlio.
Ma per te che sei vivo, Agamennóne   
870
Se qui sapratti, e tutto il campo acheo,
Tre volte tanto chiederanno ai figli
Che rimasti ti sono. - E più non disse.
Destasi il vecchio sbigottito, e sveglia
L’araldo: aggioga l’Argicida istesso   
875
I cavalli e le mule, e presto presto
Spinti i carri, invisibile traversa
Gli accampamenti. Alla corrente giunti
Del genito da Giove ondoso Xanto
Nell’ora che sul mondo il suo vermiglio  
880
Velo dispiega di Titon l’amica,
Volò Mercurio al cielo, e i due canuti
Con gemiti e lamenti alla cittade
Celeravan la via. Grave del caro
Cadavere davanti iva il carretto,   
885
Nè d’uomo orecchio, nè di donna ancora
Il fragor ne sentía. L’udì primiera
La vergine Cassandra, e su la rocca
Di Pergamo salita, il suo diletto
Padre e l’araldo riconobbe eccelsi   
890
Sovra i carri, e la spoglia inanimata
Che sul plaustro giacea. Mise a tal vista
Alti gridi e ululati, e per le vie,
Troi, Troiane, gridava, eccone Ettorre;
Accorrete, vedetelo, gli è quello   
895

Che ritornando dalla pugna empiea
Tutti, un tempo, di gioia i vostri petti.
Nè verun nè veruna a questo annunzio
Nella cittade si restò, ma tutti
D’intollerando duolo il cuor compresi   
900
Si versâr dalle porte, e fersi incontro
Al lugubre convoglio. Ivi primiere
Lacerandosi i crini la diletta
Sposa e l’augusta genitrice al carro
S’avventâr furïose, e sull’amata   
905
Pallida fronte abbandonâr le bocche,
Tutta dintorno piangendo la turba.
E le lagrime, i gemiti, le grida
Sul deplorato Ettorre avrían l’intero
Giorno consunto su le meste porte,   
910
Se Prïamo dal cocchio all’inondante
Turba rivolto non dicea: Sgombrate
Al carro il varco: pascervi di pianto
Su quel corpo potrete entro la reggia.


n. 2, Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte,Libro VIII, 352-491.

Ma il poeta divin, citareggiando,
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo  
355
Lor conversar nella superba casa
Del Re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandemente, molti
Doni offerti alla Dea, con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide,   
360
A Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L’annunzio doloroso, alla sua negra
Fucina corse, un’immortal vendetta
Macchinando nell’anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello  
365
Nodi, per ambo imprigionarli, ordia
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, contra Marte

D’ira bollendo, alla secreta stanza,
Ove steso giaceagli il caro letto,
370
S’avviò in fretta, e alla lettiera bella
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all’alte travi,
Quai fila sottilissime d’aragna,
Con tanta orditi, e sì ingegnosa fraude,  
375
Che nè d’un Dio li potea l’occhio torre.
Poscia che tutto degl’industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno,
Terra ben fabbricata, e più, che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo  
380
Marte, che d’oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l’egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla magione   
385
Del gran mastro de’ fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la diva
Dal Saturníde onnipossente padre
Nel conjugale albergo; e Marte, entrando,
La trovò, che posava, e lei per mano   
390
Prese, e a nome chiamò: Venere, disse,
Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano: altrove, a Lenno

Vassene, e ai Sintii di selvaggia voce.
Piacque l’invito a Venere, e su quello   
395
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s’avvolgean per cotal guisa intorno,
Che stendere una man, levare un piede,
Tutto era indarno; e s’accorgeano al fine,
Non aprirsi di scampo alcuna via.   
400
S’avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocchè il Sole spiator la trista
Storia gli raccontò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto, ed arrestossi  
405
Nell’atrio: immensa ira l’invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell’Olimpo l’udîr gli abitatori:
O Giove padre, e voi, disse, beati
Numi, che d’immortal vita godete,   
410
Cose venite a rimirar da riso,
Ma pure insopportabili: Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perchè impedito
De’ piedi son, cuopre d’infamia ognora,
Ed il suo cor nell’omicida Marte   
415
Pone, come in colui, che bello, e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,

Che tal non mi dovean mettere in luce,
Parenti miei? Testimon siate, o Numi,   
420
Del lor giacersi uniti, e dell’ingrato
Spettacol, che oggi sostener m’è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benchè sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo   
425
Non si svilupperan d’este catene,
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei, ch’io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,  
430
Ma del proprio suo cor non donna punto.
Disse; e i Dei s’adunaro alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il Dio, per cui la terra trema,
Mercurio venne de’ mortali amico,   
435
Venne Apollo dal grande arco d’argento.
Le Dee non già: chè nelle stanze loro
Riteneale vergogna. Ma i datori
D’ogni bramato ben Dei sempiterni
Nell’atrio s’adunâr: sorse tra loro   
440
Un riso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscia:

Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor l’agile arriva.  
445
Ecco Vulcan, benchè sì tardo, Marte,
Che di velocità tutti d’Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con l’arte; onde la multa
Dell’adulterio gli può torre a dritto.   
450
Allor così a Mercurio il gajo Apollo:
Figlio di Giove, messaggiero accorto,
Di grate cose dispensier cortese,
Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi
Dormire all’aurea Venere da presso?   
455
Oh questo fosse, gli rispose il Nume
Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo,
Fosse, o Sir dall’argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i Numi in me lo sguardo   
460
Tutti, e tutte le Dee! Non mi dorria
Dormire all’aurea Venere da presso.
Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno, anzi Vulcano,
L’inclito mastro, senza fin pregava,   
465
Liberasse Gradivo, e con alate
Parole gli dicea: Scioglilo. Io t’entro
Mallevador, che agl’Immortali in faccia

Tutto ei compenserà, com’è ragione.
Questo, rispose il Dio dai piè distorti  
470
Al Tridentier dalle cerulee chiome,
Non ricercar da me. Triste son quelle
Malleverie, che dannosi pe’ tristi.
Come legarti agl’Immortali in faccia
Potrei, se Marte, de’ suoi lacci sciolto,  
475
Del debito, fuggendo, anco s’affranca?
Io ti satisfarò, riprese il Nume,
Che la terra circonda, e fa tremarla.
E il divin d’ambo i piè zoppo ingegnoso:
Bello non fora il ricusar, nè lice.   
480
Disse, e d’un sol suo tocco i lacci infranse.
Come liberi fur, saltaro in piede,
E Marte in Tracia corse: ma la Diva
Del riso amica, riparando a Cipri,
In Pafo si fermò, dove a lei sacro   
485
Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de’ Numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestîr, che maraviglia   
490
Non men, che la Dea stessa, era il suo manto.



Note


[1] Marceline Senard, Lo zodiaco applicato alla psicologia, trad. it. ECIG, 1998.

[2] Un valido inquadramento sulla civiltà dei Veda si può leggere su https://it.wikipedia.org/wiki/Veda; un testo di grande respiro al quale riferirsi è I Veda - La millenaria conoscenza spirituale indiana, a cura di Giorgio Cerquetti e Parama Karuna Devi, Om Edizioni, 2012.

[3] L’albero del mondo è immaginato come un albero gigantesco che ha il compito di sostenere il cielo stellato collegato con rami e radici alla terra; si tratta di una immagine che si ritrova in numerose religioni e mitologie, in particolare nelle religioni di derivazione indoeuropea.

[4] L’albero della vita o albero sacro o albero del mondo, ritorna nelle religioni di derivazione indoeuropea; nell’Antico Testamento è chiamato “albero della conoscenza”, che collega tutte le forme della creazione. Nell’Apocalisse di san Giovanni, si può leggere…Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel Paradiso di Dio…(Apocalisse 2,7).

[5] Roberto Calasso, L’ardore, Adelphi Edizioni, Milano, 2010.

[6] Iconografia che sembra preannunciare l’Ariete e comunque ci indica una relazione fra queste divinità e il montone o il cinghiale.

[7] Iliade, Libro V, vv. 37-38, trad. di Vincenzo Monti.

[8] Iliade, Libro V, vv. 586-587, trad. di Vincenzo Monti.

[9] Ovidio, Fasti, V, 253-258.

[10] Omero, Iliade, IV, 440-445, XI, 70-75.

[11] Esopo, Favole, 534 (indice Oxford-Gibbs).

[12] Ovidio, Fasti, V, 184 e seguenti.

[13] Suggerisco la lettura del libro di Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi Edizioni, 1988.

[14] Sofocle, si può agilmente consultare Eschilo, Sofocle e Euripide, Tutte le tragedie, a cura di Angelo Tonelli, Milano, Bompiani (Giunti Editore), 2011 (con testo greco a fronte e bibliografia).

[15] Franz Cumont, Lo Zodiaco, Adelphi Edizioni, 2012.

[16] La statua di Ares collocata nella Villa Adriana di Tivoli è soltanto una copia di un originale greco perduto, che sembrerebbe essere l’unica statua ascrivibile ad Ares, tale statua fu subito definita di Marte. 

[17] Vedi appendice n. 1, Iliade, traduzione di Vincenzo Monti, Libro XXIV, 859-914.

[18] Giacomo Devoto, Gli antichi italici, Firenze, 1977, pag. 187.

[19] Iliade, V, 890-91.

[20] Le sue vicende sono narrate nel I libro Ab Urbe condita di Tito Livio, in frammenti dagli Annales di Ennio e da Fabio Pittore.

[21] Cfr. Le “primavere” di Marte in R. Del Ponte in Dei e Miti Italici, ECIG, Genova, 1988, pagg. 119 e sgg.

[22] Nel 1816, Giorgio IV d’Inghilterra aveva commissionato a Canova un gruppo scultoreo di Venere e Marte, che fu terminato ed esposto nel 1822: le due figure teneramente abbracciate, che si guardano negli occhi con dolcezza e intensità, nelle intenzioni del committente e dello scultore dovevano celebrare la fine della tempesta bellica provocata da Napoleone, che aveva infestato tutta l’Europa. Venere, simbolo di amore, di buona sorte, di armonia e di benessere, nonché protettrice della pace, è riversa su Marte, che sembra sostenerla in un abbraccio, mentre lei sembra lusingarlo. Ai loro piedi lo scudo e la spada di Marte, con accanto una cornucopia pieni di frutti, come a sottolineare che il ritorno della pace porta abbondanza e prosperità.

[23] Per analogia pensiamo ad un altro pomo, messo lì su un altro albero per tentare i progenitori dell’umanità, e alle conseguenze che si produssero a partire dall’altro fratricidio, esattamente come nella progenie romana.

[24] Atti degli Apostoli, Lettera di Giacomo, 4.1-2.

[25] Vedi appendice n. 2.

[26] R. F. Willets, Cretan Cults and Festivals, Routledge Kegan Paul, Londra, 1962, pag. 286.

[27] James Hillman (Atlantic City, 12 aprile 1926 – Thompson, 27 ottobre 2011) è stato uno psicanalista, saggista e filosofo statunitense.

[28] Come liberi fur, saltaro in piede,
E Marte in Tracia corse: ma la Diva
Del riso amica, riparando a Cipri,
In Pafo si fermò, dove a lei sacro


Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de’ Numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestîr, che maraviglia


Non men, che la Dea stessa, era il suo manto.

Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte, Libro VIII, 482-491.

[29] Patton, generale d’acciaio (Patton) è un film del 1970 diretto da Franklin J. Schaffner.

[30] Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».//Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.//Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Genesi, 18-20.

[31] André Barbault ha utilizzato i risultati di indagini statistiche in più testi, in particolare si veda L’astrologia e la previsione dell’avvenireArmenia, 1983.

1 commento:

  1. bellissimo questo scritto! complimenti! molto interessante, complesso, completo e chiaro!grazie! anna

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