Una delle più frequenti osservazioni che ho ricevuto in merito al libro, è stata quella riguardante la scelta del sottotitolo, La Via, la Verità, la Vita, che ho voluto utilizzare per il mio libro, che ha per titolo Ayurveda. Le osservazioni sono state generalmente motivate dal non comprendere come sia stato possibile legare un titolo, che riguarda l’antica disciplina, nata all’interno dei Veda, fatta propria dall’Induismo, relativa alla salute, con un versetto tratto dal Vangelo di San Giovanni, che racchiude in una breve frase l’essenza stessa del Cristianesimo, centrato sulla figura del Messia, che si offre come una prospettiva esistenziale.
Talune sono state propriamente critiche; alcuni hanno voluto intendere quell’accostamento come una sorta di svalutazione riduttiva dell’Ayurveda, percependo che non le avrei riconosciuto altro che un primato temporale, infatti il primo libro, Charaka Samhita, appartiene a circa un millennio prima di Cristo; ma, in particolare, si è voluto cogliere come un mio intendimento a proporre una antica filosofia, che sarebbe di secondaria importanza rispetto al Cristianesimo, come se si potessero compiere delle scale di valutazione; altri vi hanno invece intravvisto un bizzarro tentativo di rivalutazione del messaggio cristiano, da adattare a questi tempi di ormai sorpassata new age, per affiancarlo a quelle forme spirituali di derivazione orientale, che così tanto successo sembrano avere, certamente in molti casi ben più praticate della religione nostrana e tradizionale, per ridare vigore ad un credo, che sembra essere oggi più una ideologia politica piuttosto che un messaggio spirituale. Nessuna di queste letture mi appartiene. In più punti del mio libro ho affermato sia il primato temporale dell’Ayurveda sia la sua universalità che nasce dal suo rivolgersi all’uomo, a prescindere dalla sua collocazione spazio-temporale, al quale si chiede di essere consapevole del suo esistere nell’Universo, e di avere cura di sé e dello Spirito Universale, che può assumere differenti manifestazioni, pur essendo Uno. Dal suo costrutto universale ne discende la valutazione che alcuni concetti dell’Ayurveda siano ampiamente ritrovabili in tante altre forme di pensiero, religiose e non; ho indicato infatti che nell’Ayurveda, che risale, nella sua forma a noi pervenuta, a quasi tremila anni fa, ci sono quei nuclei di concezione della vita dell’uomo, ritrovabili ancora oggi nella psicologia contemporanea, quando questa afferma la stretta relazione fra mente e corpo, e per quanto attiene alla collocazione dell’uomo nella natura, esprime l’idea di fondo reperibile oggi nelle correnti dell’ecologia. Certamente, per la sua visione spirituale, molto dell’Ayurveda si ritrova nel messaggio cristiano, la qual cosa può piacere o meno, ma è esattamente così, e non riesco a cogliere quale rivalutazione vi sarebbe nel ritrovare nella dottrina che ha forgiato l’Occidente elementi riconducibili all’Ayurveda, come se avere un contenuto afferente a questa cultura faccia perdere un qualche primato al messaggio cristiano, che è pur stato il primo ad affermare quei concetti di uguaglianza e di giustizia sociale, espressi nel Discorso della Montagna. Quella che è la visione spirituale che si ritrova nel messaggio cristiano e l’evoluzione della Chiesa sono due aspetti distinti, del primo mi sono occupato, del secondo non ho avuto neppure una lontana intenzione di addentrarmi in una disamina, che sfocerebbe in considerazioni sulla condizione attuale della Chiesa, non solo cattolica, che esulano dall’intenzione che ha animato il mio scritto e la scelta del titolo e del sottotitolo.
Se dell’Ayurveda molto ho scritto nel libro e sebbene vi siano espliciti rimandi alla cultura del Cristianesimo, tanto è vero che per concludere ho indicato dove realmente si trovi il pensiero ayurvedico, assumendo la metafora “spezzare il pane”, che è un vistoso richiamo al momento più alto della celebrazione pasquale da parte di Cristo, che diviene celebrazione eucaristica, momento chiave della vita del cristiano, in realtà nulla ho esplicitato circa il cristianesimo, per cui mi corre l’obbligo di entrare nel dettaglio.
Il Cristianesimo, nato all’interno dell’ebraismo, ne raccoglie l’eredità e la integra con l’altra eredità proveniente dal mondo classico, fondendole in una risultanza con una forma propria, ma che sostanzialmente era riconducibile a quelle due culture, alla quale aggiunse un suo messaggio assolutamente nuovo. Il mondo classico, a sua volta aveva ereditato, rielaborando, sistematizzando, andando oltre nel tempo, tanto dalla cultura orientale dei Sumeri, dei Babilonesi, e altrettanto dagli Egizi; per cui il Cristianesimo aveva a disposizione un vasto patrimonio culturale, che comprendeva tutti i campi del sapere, e che si prestava ad essere adattato per impostare il progetto spirituale e religioso che si era formato intorno alle figure di Gesù, di Paolo, di Giovanni. Questa poderosa eredità aveva complessivamente maturato una visione del Cosmo con la Terra al centro, dove l’uomo vive e si rapporta ai divini signori del Cielo. Oggi, questa visione può apparire vetusta, sorpassata dalle moderne visioni scientifiche, eppure quello che noi possiamo vedere, con immediatezza, affacciandosi da una finestra e alzando gli occhi al cielo, è tuttora quello che vedevano gli antichi: lo sguardo che si posa a guardare il cielo in una notte stellata è quello della posizione di centralità, sconfitta dall’evidenza scientifica e dalla strumentazione tecnica, ma vincente nell’evidenza; le stelle sono più o meno luminose, ma appaiono tutte appuntate nel manto celeste, dove i luminari e i pianeti sono corpi mobili, che transitano da una costellazione ad un’altra, segnando il tempo, che, a sua volta, scandisce l’evolversi della vita del singolo e della collettività. Questa idea dell’uomo collocato nell’Universo accomuna le grandi tradizioni destinate a diventare patrimonio della classicità, ed è questo ad avere una corrispondenza molto precisa con l’idea di Universo espressa nei Veda, che pone l’Uomo al centro, microcosmo nel macrocosmo. Ogni cultura antica ha espresso questo concetto, in modo proprio e autonomo, ma l’idea di fondo è quella di un Cosmo, governato dagli dèi, ai quali l’uomo, che da loro riceve la vita, deve rivolgersi e, attraverso una liturgia, operare i necessari riti e sacrifici, per vivere rispettando una serie di regole, e aspirare a tornare all’Uno. Secondo i Veda, tutto ha avuto inizio quando Purusha, lo Spirito Eterno, si è pensato, e ha dato origine a Prakriti, la materia, formata da Etere e Aria, Fuoco, Acqua, Terra; ogni realtà è composta in differenti proporzioni da questi elementi, a cui si deve la vita e la morte di ogni cosa. Questa composizione della materia del creato è sostanzialmente la medesima di cui parla Empedocle, che sintetizzava l’insegnamento delle dottrine ioniche, di Pitagora, di Eraclito, di Parmenide, quando sostiene che tutto ha avuto inizio dalle quattro radici, da cui ogni cosa discende, l’Aria (che incorporava anche l’Etere dei Veda), il Fuoco, l’Acqua e la Terra: nulla è imperituro se non queste radici, che si aggregano e disgregano dando vita alla continua trasformazione, perché esse sono l’essenza animata dal soffio vitale dei poteri divini. Così come i Veda avevano concepito l’idea che ogni cosa, visibile e non, con la quale l’uomo interagisce, fosse la miscela di quelle componenti della materia, anche il pensiero greco, che poi lo consegnerà in eredità all’Occidente cristiano, immagina che ogni elemento esistente sia il frutto della miscela delle quattro qualità, che in ognuno è in proporzione assai varia, ma il risultato è sempre di questa miscela. Da dove vengono questi elementi? Dalla primaria creazione: tutto muove da una luce originaria, che ancora l’uomo può vedere nella luce del sole, della luna, dei pianeti, delle stelle; la luce, quella luce che nel pensiero ebraico prima e cristiano poi, è narrata nel Genesi…Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. La luce è anche quella che, secondo il pensiero vedico, si genera nel momento in cui Purusha si oggettivizza in Prakriti: la luce che genera il movimento che diventa aria, cha a sua volta si scalda originando il fuoco, che a sua volta, nella miscela con l’aria, si condensa producendo acqua, che precipita nella materia terra, così i Veda avevano immaginato la creazione; la Bibbia ci racconta che dopo la luce Dio fece il firmamento, che lo separò dalle acque, sopra uno e sotto le altre, e poi riunisce le acque in luogo asciutto, e chiamò l’asciutto terra e le acque mare. Le parole sono diverse, ma il meccanismo è sostanzialmente identico; così la descrizione dei quattro elementi di Aristotele non si distacca da quelle altre due, anche se vi imporrà una sua propria interpretazione; tuttavia, la sua lettura diverrà patrimonio della cultura cristiana medievale.
Il Cielo lungamente osservato dall’antichità, interpretato dai popoli della Mesopotamia, dagli egizi, perviene ai greci, che lo passano al vaglio della loro poliedrica conoscenza, e lo codificano in una interpretazione fisica e matematica, alla quale attinge Tolomeo per i suoi lavori di geografie di astrologia, consegnandoli alla cristianità che li fonderà con l’esperienza ebraica, contenuta nella loro Bibbia, che viene assunta come imprescindibile punto di riferimento per la costruzione della nuova religione di salvezza. Su questo complesso patrimonio, si situa la visione di Tolomeo, il quale analizza anche l’uomo alla luce delle qualità prime, collegandole in base alla prevalenza di un elemento ai quattro pianeti Venere, Marte, Giove e Saturno, utilizzando, oltre che la lezione della tradizione astrologica, anche la cultura medica definita da Ippocrate, offrendo questo schema:
Giove – Aria – Sangue – Sanguigno – Giustizia – Gola
Marte – Fuoco – Bile - Collerico – Forza – Ira
Venere – Acqua – Linfa – Linfatico – Temperanza – Lussuria
Saturno – Terra – Bile Nera – Malinconico – Prudenza – Avarizia
E, su queto schema, si modellano le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, temperanza, prudenza. Superfluo rammentare il Cielo dantesco, e tutti i riferimenti a Tolomeo, nella Divina Commedia.
Che ci sia stata una precisa continuità fra mondo antico e cristianesimo è un fatto acclarato; ma c’è anche un’altrettanta continuità fra cristianesimo e l’idea di fondo dell’Ayurveda, che non era presente né nell’ebraismo né nel mondo classico. L’uomo e la società, come l’aveva individuata l’Ayurveda, nata nella cultura vedica, hanno due fondamentali caratteristiche: la prima è che ogni uomo, potremmo sintetizzare, è solo davanti all’Assoluto, ogni individuo, costituito da corpo, mente e spirito, si pone con le sue responsabilità nel Cosmo-Universo; la seconda consiste nel considerare che l’uomo ha davanti a sé la sua vita, da percorrere secondo quattro tappe, che rappresentano l’obiettivo della ricerca umana, il motivo che determina l’esistenza stessa: Dharma, l’adempimento dei doveri che la Natura dà all’individuo, collocato dalla nascita in un ambiente naturale e sociale, appartenente ad un gruppo familiare, etnico, sociale, dotandolo di un censo, di una cultura, di una spiritualità che si esprime in una religione; si tratta di una indicazione di unicità assoluta, che distingue ogni uomo da tutti gli altri, e lo rende responsabile del suo patrimonio ereditato, di qualsiasi consistenza esso sia; significa che ognuno deve fare il suo percorso in base ai talenti ricevuti: non è una scusante avere avuto poco per non fare nulla, ognuno è chiamato a dare il suo, in base alle sue possibilità; esattamente quello che si racconta nella parabola dei talenti, in Matteo 25, 14-30[1]. La seconda tappa, Artha, indica che si deve imparare a vivere ottenendo quei beni materiali necessari a provvedere a sé stessi, a mantenersi in buona salute, perché il corpo sia in grado di tessere le lodi dell’assoluto: mantenere la salute è una responsabilità individuale e sociale; individuale, in quanto consente di potersi dedicare alla salute dello Spirito; sociale, perché star bene implica far vivere bene anche chi ci è vicino; Meister Eckhart, grande mistico tedesco vissuto poco prima di Dante, fine del XIII secolo, confessava che: “Nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell’aver sofferto”; infatti la sofferenza genera turbamento, occupa la mente, diviene barriera per la meditazione, per la preghiera, per alzare le lodi dell’Universo. Gesù è esplicito in questo senso: O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti, siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo![2]. Avvertimento importante per sé stessi, ma Gesù aggiunge anche l’altra considerazione di carattere sociale: Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri[3]. Tuttavia, la malattia degli altri, nell’induismo, impone ai sani di usare benevolenza, maitri, concetto che sarà ampliato nel buddhismo nell’idea di compassione, karuna. Mi pare persino superfluo ricordare quanta parte della vita di Gesù, soprattutto nel Vangelo di Matteo, sia rivolta alla malattia altrui. Ognuno è solo nel suo viaggio esistenziale, ma quella che oggi chiamiamo solidarietà, è il legame che tiene uniti gli uomini, aspetto ben radicato nella cultura induista, che ha fatto sorgere al suo interno numerosi rivoli di dottrine, che hanno fatto di questa solidarietà il nocciolo della loro predicazione; ultima, ma solo in ordine cronologico, il movimento degli Hare Krishna. Nel cristianesimo le virtù della pietà e della carità sono il fondamento della relazione interpersonale[4] e Dio stesso è carità, come, in tempi recenti, ha ribadito il grande teologo, Benedetto XVI[5]. La terza tappa è Kama, che impone di utilizzare la sicurezza economica raggiunta per la soddisfazione di legittimi desideri, senza eccedere; affrancarsi dal bisogno è fondamentale per l’equilibrio della mente, ma altrettanto lo è sapersi moderare, tenere i sensi sotto controllo, non lasciarsi trasportare dalla furia dell’accumulare; i sensi che agiscono maggiormente ad incrementare i desideri sono gli occhi, e a mettere in pratica ciò che serve per ottenere quanto il desiderio propone sono le mani, in questo senso l’Ayurveda è chiarissima; occhi e mani, proprio con questo preciso significato, sono citati nel “Discorso della Montagna” quando Gesù dichiara…Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te e della mano…E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna. Queste tre tappe sono propedeutiche per raggiungere il livello che permette l’accesso alla dimensione spirituale, che è costituita dall’immergersi nella dimensione del sacro e del divino, così come cita uno dei più famosi mantra, già presente nel testo più antico del mondo, RgVeda, per poi essere riportato ancora nella Baghavad Gita:
Ci uniamo alla terra e al cielo
Riconosciamo Savitur
Forza veneranda che ci rende felici,
Al di sopra del sole.
Che ci colmi della sua luce splendente.
Che chiarifichi il nostro spirito,
Che purifichi e fortifichi il nostro cuore
Incitandoci e ispirandoci
sul commino della consapevolezza divina.
Rileggiamolo, con calma, perché, in altre parole, è il Padre Nostro, come si legge nel Vangelo di Luca:
Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione.
Testo che differisce di poco dal più noto, che è parte del Discorso della montagna, riportato dal Vangelo di Marco:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno;
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Il discorso della montagna, contiene non pochi riferimenti reperibili nei Veda e nella tradizione induistica, e non è casuale allora che Gandhi si sia ispirato a quei principi espressi in quel Discorso, e che lo abbia considerato un riferimento di primaria importanza per la sua “dottrina della non violenza”, anzi, nei suoi scritti fra il 1920 e 1940 ebbe più volte ad affermare che senza lo studio di Cristo la sua vita sarebbe stata incompleta; tuttavia, all’interno dell’induismo, Gandhi non rappresenta un’eccezione, in particolare i filosofi del neoinduismo, a partire da Ram Mohan Roy, hanno avuto una attenzione particolare, che è stata in molti casi una vera e propria ammirazione; e tale ammirazione è riscontrabile anche in filosofi e letterati, fra cui il più noto in occidente, Rabindranath Tagore[6]. Se nel corso dei secoli, fino alle più recenti testimonianze, tanti esponenti dell’induismo hanno guardato alla figura di Cristo e al suo messaggio, significa che c’era in quel messaggio qualcosa che a loro era familiare, ma c’era anche qualcosa di più, che poteva aggiungere o completare gli antichi insegnamenti vedici, che è il nucleo di originalità del cristianesimo, condensato nel Discorso della montagna.
La predicazione di Gesù totalmente nuova, e per questo rivoluzionaria a tal punto da determinare la reazione sia da parte ebraica sia da parte romana, si fondava sul principio di solidarietà fra tutti gli esseri umani e il riconoscimento di una sostanziale pari dignità fra tutti gli uomini; non si limitava ad una asserzione di principio, infatti, richiedeva che tali ideali fossero pratica di vita. Il fatto che la successiva organizzazione della Chiesa abbia poi frenato questo impulso di uguaglianza, dignità, giustizia umana, non esclude che l’incitamento originario fosse assai chiaro: Gesù offre una “verità” totalizzante, che va oltre il mondo concettuale, propone uno stimolo per coinvolgere la vita nella dimensione totale del reale. La verità che percepisce Tommaso, quando chiede a Cristo: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?” non è sufficiente per dargli la sicurezza, e quando Gesù risponde: “Io sono la via, la verità, la vita”, dice che non può esservi verità (il nucleo degli insegnamenti), senza che sia radicata nella vita (lo stile di vita), che comporti una via, la via dello Spirito.
C’è una letteratura sconfinata su queste tematiche, a partire dalla storia degli Esseni, della loro dottrina molto simile o, secondo alcuni, derivata dalla tradizione vedica, e sulla partecipazione di Gesù a questo movimento; una letteratura alla quale chiunque abbia voglia di informarsi, può accedere. Nel mio intento volevo sottolineare che le idee fondamentali dell’Ayurveda si ritrovano nel messaggio del primo Cristianesimo. Qualcuno, ancora oggi, tende a individuare le differenze piuttosto che i punti di unione fra popoli e loro credenze, e a questi lascio le loro valutazioni.
[1] In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 14«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». 21«Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». 23«Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sottoterra: ecco ciò che è tuo». 26Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».
[2] Corinzi 6, 19-20.
[3] Romani 12, 4-5.
[4] «Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 28E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». 29Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».» Vangelo di Luca 10, 25-37
[5] Deus est caritas, Enciclica di Benedetto XVI, 2005.
[6] Il nonno di Tagore aveva fondato nel 1828 un movimento “la congregazione di Dio” ispirato da idee cristiane e islamiche.
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